■
L’azione sociale
L’uomo
cui non sorrise una famiglia propria, e che anche nell’ampio mare della
cultura aveva trovato una foce insufficiente al suo irrompente sentimento, non
poteva appartarsi dalla vita vissuta. E si riaffacciò nella società da cui era
uscito, in due modi: facendo del bene e resistendo al male.
Ora,
qui ricordiamo la sua attività pubblica, perché la carità nascosta, che Dio
solo conosce, sarà portata nella tomba da tanti beneficiati. Quanto e quanto
dette con discrezione, appena conobbe o intuì una situazione penosa, una
sventura improvvisa, una miseria segreta!
La
sua carità cristiana non consistette nel privarsi di residui, ma fu soprattutto
un movente morale di redenzione dal bisogno.
La
scossa decisiva l’ebbe all’Università dal Maestro, il principale
organizzatore del movimento cristiano–sociale in Italia, e che fu anche
il maggior esponente della Scuola etico–cristiana. Toniolo reagiva alla
concezione utilitaristica dell’economia individualista, volendo
disciplinare l’esigenza del singolo nella collettività. Alla
insufficienza dell’individuo riparava col Sindacato, (unità organica
professionale) e la Corporazione, in cui si determinano i Sindacati, termini
intermedi fra l’individuo e lo stato. Di questo non volle mai la
strapotenza totalitaria, ma solo una adeguata legislazione per una maggiore
giustizia sociale. Base dei rapporti era la regolazione dei contratti di
lavoro, ed a quelli individuali (che possono finire nel crumiraggio) sostituiva
il contratto collettivo.
L’autore
di opere poderose di sociologia era un cristiano di gran pietà, e prediligeva,
lo sappiamo, il giovanissimo Vitale. Tutte le mattine gli serviva la Messa, e
ne riceveva la Comunione. Fu lui a dargli la notizia che Don Murri, il
sacerdote modernista e sociologo, si preparava a ribellarsi: “Don Vitale,
è il primo giorno che Don Murri non ha celebrato!”. Giudicate voi che
leggete, se Don Giacomo, con la sua indole, la sua coscienza di figlio del
popolo, e con questa formazione dottrinale ed affettuosa che ricevette per anni
da lui, doveva o non berne il pensiero e l’azione, e farli suoi, e
lottare per attuarli.
Dalle
lettere di Don Giacomo notiamo anzitutto il disagio a staccarsi
dall’ambiente pisano dove gioventù, studi, tanto maestro, attività
sociali, gli davano le uniche sante soddisfazioni che cercava, mentre da noi
tutto quel che gli sorrideva, gli sarebbe mancato.
Scriveva:
“…Vedo con dolore avvicinarsi il momento del mio ritorno, e se una
nuova malattia più forte e più lunga di quella che ho già sofferta, mi venisse
a visitare in modo da impedirmi gli esami, e così prolungarmi il soggiorno a
Pisa, io l’accoglierei come la benvenuta. A tanto son ridotto. Tanto
orrore mi fa la vita d’inerzia e di abbattimento che mi aspetta così!
Tanto ribrezzo sento per tutte le forme di vita, per tutte le manifestazioni di
attività politica e religiosa, per tutti i costumi barbari che ancora regnano
fra noi… Almeno ci fosse a Piedimonte una biblioteca, dove immerso nei
miei studi, potessi non vedere e non sentire! Potessi almeno essere libero di
esplicare quell’azione ch’io credo solo buona e rispondente al
momento storico che attraversiamo… Se non posso dar l’anima agli
studi e all’azione, meglio rifugiarmi in un paese alpestre, lontano;
mettermi a contatto coll’anima del popolo, e plasmarmela lentamente,
amorosamente, secondo il mio ideale, aliena dai pregiudizi, nemica delle
prepotenze, cosciente dei suoi diritti e dei suoi doveri di cristiana e di
cittadina”.
È
la visione d’un Ideale. Direttiva costante per lui, l’azione. Il
suo tormento, la paura di non poter agire. La tempesta del dubbio lo assale, la
supera, e l’Ideale si radica. “Di che devo parlarvi?” chiede
in una lettera (1909) a un suo parente “Stamane abbiamo fatto un gruppo
noi tutti laureandi in Lettere, e dopo abbiamo festeggiato…o meglio hanno
festeggiato: io no, io ho meditato, io ho visto che il giorno della laurea non
è per me un giorno di gioia ma di dolore…Finora avevo uno scopo nei miei
studi: che farò quando l’avrò raggiunto?…Organizzare gli operai per
guidarli contro i ricchi che li sfruttano e il governo che li
deride?…”
E
ancora una volta lo studio, solo lo studio gli si affaccia come via di uscita
dal naufragio del suo sogno. Ma subito riaffiora potente in lui, uomo di
azione, la funzione sociale della cultura: “…mentre io sarei
astratto dalle memorie del passato, intorno a me ci sarebbero tanti oppressi
che avrebbero bisogno di chi li aiutasse a sollevarsi, tanti miserabili che
aspetterebbero invano una parola di speranza. Sentire i loro lamenti e non
poterli soccorrere, perché…ne sarei impedito dai pregiudizi,
dall’interesse, dall’ignoranza di chi, nato ed educato con criteri
antidiluviani, ha la forza per reprimere ogni iniziativa, ma non per
comprendere i bisogni, le esigenze, i diritti del tempo in cui viviamo. Se
questo bene che io vorrei fare mi è impedito, allora perché vivere? Che cosa
sarà la mia vita fatta per la lotta?…Se tutto quello che ho imparato, se
tutto il bene che ho sognato, io non potrò, venendo, distribuirlo a chi vive
nella miseria e nell’ignoranza, come posso guardare con occhio lieto il
giorno del mio ritorno?…E se mi lamento, se guardo con angoscia al mio
ritorno, non è perché tremi delle difficoltà, ma perché credo che mi si
legheranno le mani, e sarò condannato a vegetare nell’inerzia e
nell’avvilimento…Sognare un grande sogno, sacrificare la gioventù,
l’ingegno, l’anima per esso, rinunziare ad ogni allettamento di un
roseo avvenire, rinunziare a parenti, ed amici, alle cose più belle e più dolci
per esso, e non poterlo realizzare, e vedere che tutto, tutto è stato invano!
La mia condizione è questa, il mio dolore è questo, e non altro”.
Ma
qual era il quadro della società che preferiva, e non voleva abbandonare?
“…Qui…gli operai sono tutti organizzati in leghe e sindacati
professionali…e da preti e da socialisti gli operai sono guidati negli
scioperi…Domando: potrei io a Piedimonte organizzare gli operai, e non
dico condurli a scioperare, ma parlare solamente di sciopero,
senza passare come rivoluzionario, ed essere scomunicato?…I cosiddetti
“signori” qui non esistono…Tutti lavorano. Le donne sono
unite in circoli di cultura dove ascoltano conferenze e lezioni d’arte,
di educazione d’igiene, di pratica casalinga. Vi sono associazioni di
madri di famiglia…di operaie. Doposcuola, l’Opera della Protezione
della giovane, il Comitato pel voto elettorale alle donne…”.
Ecco
quel che Vitale voleva, e per cui il contrasto fra Nord e Sud è visto da lui
con tinte così contrastanti. Ma, ricordiamoci che era un giovane dallo spirito
esuberante, e perdoniamogli per questo qualche esagerazione.
***
Tornò
a Piedimonte. E le occasioni a entrare concretamente nelle questioni operaie,
ad attuare il suo programma di azione, non mancarono. La prima fu
nell’Aprile-Luglio 1911: la controversia fra operai e padroni al
cotonificio Berner, che portò al primo, totale, ostinato sciopero dei
cotonieri. Ne ho fatto cenno su “Piedimonte”. Gli operai
chiedevano un compenso minimo in caso di inattività non causata da loro, ma ad
es., da guasti. La richiesta era lecita, e Guglielmo Berner finì con
l’accettarla, ma pretese il diritto di ridurre le giornate lavorative
senza preavviso, e per di più, licenziò 13 operai. Gli altri preoccupati, dopo
tanta resistenza tornarono sotto.
Don
Giacomo si trovava di fronte una massa operaia quasi scristianizzata, non aveva
ancora un seguito, e perciò agì con prudenza. Descrisse anzitutto al Toniolo la
situazione, e ne chiese il parere. Questi, hià dal 14 ottobre 1910 gli aveva
additate le linee da seguire nella difficile situazione dei Sindacati
cristiani, della delicata posizione del sacerdote in essi: ed ora, con la
lettera del 12 aprile 1911, affronta l’accesa situazione piedimontese,
vedendola però non dall’angolo pedemontano sotto il Matese, ma da una
cima molto alta, dalla situazione nazionale. “Se Ella riuscisse a una
composizione amichevole…” consiglia Toniolo, e perché? Perché sì, è
vero che negli stabilimenti a telai automatici c’è supplemento in seguito
a inattività di macchine, per mancata preparazione o per guasto, ma non
c’è contratto che regoli ciò, e allora? Se c’è “consuetudine
di fatto”, “contratto tacito”, l’impegno reciproco
presuppone la stabilità dell’industria, ma se questa manca, cessa
l’impegno per padroni e operai. Ora, il momento è rovinoso per
l’industria cotoniera italiana, e perciò le richieste degli operai urtano
contro una situazione di fatto, che devono pur capire. “E potrebbesi accennare
agli operai quanto siano gravi in tutta Italia le condizioni odierne del
cotonificio a danno di padroni e lavoratori insieme…”. Già la
promessa (di Berner) di non ridurre le giornate di lavoro più di quanto è stato
finora è qualche cosa. “E se fosse possibile” consiglia,
“faccia accettare agli operai il cottimo sull’unità del prodotto
dei telai selfacting: vale come il supplemento”. Si tratta di far
pagare all’impresario per il lavoro effettivo e non per l’ozio
forzato. Si deve infine evitare che una sola delle parti (padroni-operai)
comandi all’altra. Patti, contratti, impegni devono dirigere la vasta
azienda piedimontese, non scioperi e serrate.
Conclusione
di sociologo-economista, che il prof. Vitale si sforzò di far capire. Ma
l’ostinazione, gli animi accesi di 600 operai, i licenziamenti, la
presenza dei Carabinieri al cotonificio, non gli permisero un’azione
tutta sua.
***
Venne
la guerra del ’15. Vitale al “Dio e Patria” spiegava le
nostre operazioni militari, s’interessava per la Croce Rossa, facendo
lavorare indumenti, e fece propaganda per il Prestito Nazionale, ed infine fu
Presidente della Congrega di carità. Presiedere è una cosa, animare è
un’altra. S’imponeva il problema dell’infanzia abbandonata.
Egli lo risolse non a titolo di elemosina, ma “in modo organico e
completo” (dice mio padre nelle “Memore storiche”). Il
18 ottobre 1916 provvide:
1. per i bambini inferiori a
tre anni con la Casa di maternità, fornitura dell’intero baliatico, di
latte o surrogato, di corredini a neonati figli di combattenti, e con sussidi
mensili.
2. per bambini dai tre ai sei
anni, aumentando la dotazione all’Asilo infantile.
3. per i fanciulli oltre i sei
anni, col sussidio ad una Scuola di arte e mestieri. Doposcuola, sussidi a
domicilio per famiglie povere e borse di studio. Pensò anche ai locali.
Ancora
una volta si manifestava il suo sentimento retto da intelligenza, ispirato da
disinteresse.
***
Dove
la superiore moralità del prof. Vitale apparve più connessa, fu nella questione
dei pascoli del Matese. Qui il bene si dové fare lottando, e Don Giacomo non si
sottrasse alla lotta, che ebbe momenti drammatici.
I
fatti andarono così. Quando la S.M.E. iniziò i lavori di sbarramento degli
inghiottitoi al lago Matese, le acque innalzandosi di cinque metri di livello,
invasero terre demaniali, fino allora adibite a pascoli. Mentre i pascoli
diminuivano, il Comune di S. Gregorio aveva permesso all’Avv. Pedone di
Foggia di trasferire sul Matese 3650 ovini-caprini, e 250 bovini-equini,
aggiudicandogli l’appalto della fida del pascolo sulle erbe demaniali. I
pastori locali da padroni divennero tollerati, senza contare il danno
finanziario al Comune, e la diminuzione del prodotto. Messi dinanzi alla fame,
minacciarono d’incendiare il municipio.
Il
prof. Vitale – non dispiaccia una volta l’atuzia in lui –
anzitutto puntò sulle elezioni amministrative, che portarono al Comune il
Partito Popolare, e cioè i pastori. Col nuovo sindaco Vincenzo Ferritto, il
Comune diffidò il Pedone, chiedendo una modifica agli accordi, data la
situazione mutata. Ma questi e l’Autorità stavano alla lettera della
legge. Prevedendo il peggio, il Sottoprefetto D’Elia nel Maggio ’21
scriveva: “…si diffidino energicamente promotori opposizione
affatto arbitraria e sobillatori” (leggi: Vitale). Ecco gli armenti
pugliesi, il 15 Giugno sull’Esule. Assessori, consiglieri, e guardia
campestre vogliono impedire. Si fa violenza contro di essi. Accorrono
minacciosi i pastori. Sopraggiungono 100 carabinieri armati. 25 pastori sono
tratti in arresto. Il tumulto in paese è indescrivibile. Il Comune ricorre. È
Vitale, assessore al Comune che istruisce sul da fare. Fa fare interpellanza
alla Camera per l’immediato rilascio degli arrestati. Spedisce anche i
fogli di carta bollata “nel timore che costà non vi siano”.
Finalmente il 7 Dicembre, vittoria del Comune! Il pretore Renella ordina al
Pedone lo sgombero del Demanio. Ma quello ricorre. Il 1° Maggio ’22, il
Tribunale accoglie l’istanza. Il 1° Giugno appello ostinato del Comune.
Si preparano le condizioni di una transazione. Il Comune, il 24 Giugno, con
deliberazione n. 304 nomina Vitale “fiduciario”.
Il
***
Altra
feconda realizzazione di Don Giacomo in quei giorni fu la Cassa rurale per
impedire lo strozzinaggio (soldi “a senà”).
Si
tratta di società di credito agricolo, quasi sempre a forma cooperativa in nome
collettivo, per migliorare la condizione materiale e morale dei soci con
l’agevolar loro il credito e favorendone il risparmio. L’attività
sociale si basa sul credito personale, si attua nel villaggio al cui santo
patrono spesso s’intitola. Furono attuate in Germania fin dal 1848, e
furono diffuse in Italia dal Wolleborg e dal Rossi, e si moltiplicarono, spesso
ad opera di parroci, in Toscana, Veneto, Lombardia, ed Emilia.
Don
Giacomo si recò appositamente a Bergamo per due volte, a studiarne il
funzionamento e, delle tre sorte nella piccola diocesi alifana, il Vitale fu
promotore di quella di San Gregorio (la preparò anche a Calvisi). Il 27
Dicembre 1921 vi s’iscrissero agricoltori di S. Gregorio e Castello,
versando ognuno L. 500. Sul capitale si riscuoteva un utile del 3% se il
deposito era libero, del 4% se vincolato. Verso il ’30-’35, la
piccola Cassa aveva un movimento annuo di L. 2.000.000. Poesia delle cifre!
Durò fin quando non fu messa in liquidazione dal Governo nel 1935.
***
Ultima
manifestazione del suo Cristianesimo vissuto, fu l’attività
all’Ospedale di Piedimonte, e in essa suggellò la sua vita.
Commissario
dell’Ospedale l’8 Gennaio ’44, messovi dall’Allied
Military Governement, subito, dinamicamente, il 20 Febbraio, egli
costituiva l’Ente “Ospedale Ave Gratia Plena”, dopo aver
“ritenuto la convenienza e il dovere nelle attuali difficili
comunicazioni col centro, di costruire un Ospedale che accolga, oltre i degenti
locali e dei paesi viciniori, i numerosi infermi e feriti che in numero sempre
crescente vengono inviati dal fronte di guerra”.Intanto Ailano, Alife,
Castello, Gioia, Raviscanina, S. Gregorio, S. Potito, S. Angelo e Valle
Agricola, stringevano consorzio con Piedimonte, e il prof. Vitale si metteva in
giro ad elemosinare. Egli chiedeva e riceveva, e il Dr. D’Amore,
direttore sanitario attuava.
Il
momento era tragico, col fronte a pochi Km, e i nostri paesi semidistrutti. Già
erano arrivati tanti feriti da Alife martoriata, quando da Cassino ecco
giungere sventurati sanguinanti in numero sproporzionato. Furono mobilitati i
medici e, d’urgenza, si dovette pensare a forniture di alimentari,
paglia, sapone, legna e carbone, medicinali soprattutto, e recipienti, cascame,
stoffe… e pensare alla impellente lavanderia, al rattoppo, e tutto sul
momento, senza poter respirare, fra il rantolo del morente, e gli urli di
dolore di chi portava il piombo nella carne.
In
pochi mesi l’Ospedale era un altro. Stanze per singoli, due sale per
feriti, due per infermi, una sala per maternità, un gabinetto per analisi, e
uno radioscopico, un consultorio oculistico e uno otorinolaringoiatrico, tre
sale per disinfezione, preparazione e operazione, una stanza di casermaggio, perfino
un nuovo statuto organico, e un aumento di reddito! “Tutto questo”,
scriveva D. Giacomo, “si è potuto conseguire per i sussidi
dell’A.M.G., per i concorsi dei Comuni e, primo, del Comune di
Piedimonte, e per le continuazioni affluenti elargizioni dei privati”.
Il
1° marzo 1947 ci fu l’ultima riunione sotto la presidenza Vitale (manca
la firma di lui). La morte era vicina. Ma egli, l’aspettava ormai,
liberatrice dalle sofferenze atroci del corpo, e schiudentegli
l’orizzonte di luce che Cristo promise a chi passa nel mondo beneficando.
***
La
grandezza del Prof. Vitale, per cui tanti lo ricordano, per cui lo rievochiamo
per primo nelle civiche onoranze sfugge agli uomini esteriori. Essi infatti si
chiedono: Che ha fatto in fondo, da meritare un monumento?
Rispondo
a nome del Comitato, a nome di quanti ne serbano devoto ricordo.
È
una benemerenza e un vanto compiere pubblici lavori, o emergere nella vita
politica e nella carriera. E queste sono grandezze che si vedono.
Ebbene,
Giacomo Vitale non costruito strade, né è diventato un alto prelato. Ha solo
lavorato nei cuori e nell’intelletto di centinaia di persone. Ha lasciato
perciò tracce materialmente invisibili, ma non per questo inesistenti. Sta qui
la sua benemerenza civica.
Egli
non rivive in un palazzo o in un titolo, ma nel subcosciente di chi cade e
risente, come in un soffio, la voce del suo rimprovero, o di chi sale e rivede
il suo gesto d’incoraggiamento e di plauso… La sua ombra non
aleggia su realizzazioni materiali, ma appare nell’intimo, quando si
studia, quando faticosamente ci esaminiamo.
Chi
non lo conobbe, chi era refrattario alla scuola del carattere e della
bellezza, può non riconoscerne l’altissimo merito. Ma noi che dal suo
insegnamento abbiamo ricavato la visione spirituale della vita, non esitiamo ad
attribuirgli quanto si disse di Socrate: “Scolpì anime, e fece nascere
idee”.
Obbedendo
con slancio alla richiesta del Vescovo, ho steso questi cenni sul mio
Professore. Ma non devono servire solo a ricordarlo. Un libro “…è
men che niente se, fatto il libro, non rifà la gente”.
Il
Giusti ha ragione. E speriamo perciò che i “Ricordi del Prof. Vitale
diano un significato allo sguardo intelligente e buono che emana dal monumento,
ed egli continui a parlarci, ad ammaestrarci, a farci riflettere, a farci
migliorare.
Piedimonte,
20 luglio 1963
Dante
Marrocco