Riassumere da opere è facile, guardare in
un’anima e capirla è difficile. Ci si dovrebbe immedesimare in essa. Ma,
è possibile l’immedesimazione? Non si corre il rischio di trasformar
quell’anima in noi, invece di specchiar noi in essa?
Invece di una fotografia non potrebbe saltar fuori
una pittura, che potrebbe anche esser bella, ma non sarebbe fedele?
E allora… Ho fatto dei proponimenti:
ricordare, sentire, descrivere, soprattutto far parlare il prof. Vitale. La mia
non sarà un’indagine su di lui – non ne sarei all’altezza,
poiché la parte non comprende il tutto – ma solo un racconto, una
descrizione, un ricordo.
Il perché si sa. Lo conoscemmo ed ammirammo. Prima
che scompariamo anche noi che ne serbiamo viva nel cuore la devozione, abbiamo
voluto ricordarlo ai sensi e al pensiero di quelli che verranno. Ai sensi
parlerà dall’espressivo monumento che l’arte di Luigi Fagnani ha
saputo creare, al pensiero parlerà da questo opuscolo (poca cosa in verità). Lo
rivedremo comunque, e lo vedranno i futuri, in corpo ed anima. E sarà proprio
come in vita: fisicamente lo vedemmo qual era, spiritualmente ne intravedemmo solo
un bagliore.
***
Agli
amanti delle date dirà che Giacomo Anna Armando Mario Vitale vide la luce a San
Gregorio sul Matese il 26 luglio 1883, e vi fu battezzato il 29.
Il padre, Carmelo Pasquale, era di Avellino, e a San
Gregorio era a servizio del Senatore Del Giudice, poi morì in casa di salute.
La madre, Maria Filomena De Lellis, maestra, era del posto. Ebbe in seguito un
fratello. Eliseo, passato poi in America e mortovi, impiegato al consolato di
Buenos Ayres. La madre lo lasciò quando aveva diciassette anni. Il piccolo
Giacomo, dal fisico non eccezionale, era stato tirato su amorosamente da lei, e
così non perdette quel sorriso che conserva chi ha avuto l’affetto
materno.
Frequentò il seminario diocesano per tutti i corsi
inferiori e teologici.
Il ricordo di lui nei vecchi professori, era più che
lusinghiero. Compare per la prima volta in un documento, durante
un’accademia, che nel giugno 1903 fu tenuta lì, in occasione del 16°
centenario del martirio di S. Marcellino. Il Rettore, prof. Pennacchio, affidò
a lui la recitazione di un’ode “Causa facit Martyres”
del prof. Landolfi, e di un epigramma greco del prof. La Catena, con
traduzione.
La caratteristica fisica del prof. Vitale, dalla
mano destra invalida e sempre inguantata, ebbe origine durante gli anni del
seminario da una malattia, per cui gli si dovettero amputare falangi.
L’operazione, interessando i tendini delle altre dita, gli lasciò la
destra inservibile, ma forse fu una minorazione che ne affinò le voglie,
indirizzandolo decisamente al mondo dello spirito.
Per l’Ordinazione occorse la dispensa. La
Congregazione del Concilio si rimise al vescovo Caracciolo di Torchiarolo, che
“visa instantia clerici Jacobi Vitale… cum, operationis
chirurgicae causa, esset impeditus in articulatione dexterae manus…
dispensationem super irregularitate, ita ut ipsae sinistrae manus in
benedictione hostiae super calice et in benedictione et in sumptione sacrarum
specierum uti licite valeat… concedimus et impartimur”.
Così, usando la sinistra nella consacrazione e nella
benedizione, il 14 aprile 1906, Don Giacomo salì all’altare.
La società si rinnovava e, ferma restando la
preparazione tradizionale del clero, era anche bene che qualcuno dei giovani
preti seguisse i corsi delle università statali. Don Giacomo s’iscrisse a
Napoli nel 1906, e l’anno dopo passò a Pisa, attrattovi dalla presenza
del prof. Toniolo, Ordinario di Economia politica.
La vita universitaria e l’affetto degli
studenti migliori, fra i quali Pietro Silva lo storico, il latinista Zamboldi,
il giurista Zanobini, il Codignola, dettero più spigliatezza alla sua già
pronta intelligenza.
Come viveva a Pisa? Erano sacrifici, suoi e dei
parenti. Il vescovo gli mandava molte messe, quasi tutte a L. 1,22, e qualcuna
a L. 1,50, ed insisteva (lettera 16 dicembre 1909): “Cogli esami a che
state? Quando più o meno pensate potervi ritirare?… qui veramente
desidererei la vostra persona per varie ragioni”. Ma gli stenti erano
superati dalla forza d’animo, rivestita di giovialità. Sentitelo:
“…ieri sera intervenni ad un pranzo dato nell’hotel più
aristocratico di Pisa, hotel Nettuno, per festeggiare l’Assistente dei
circoli universitari, e mi ritirai ch’era mezzanotte. Se lo sapesse S.
E.! (il vescovo) il quale, poveretto, m’ha scritto raccomandandomi di
fuggire i libri e i giornali cattivi, e la compagnia cattiva (leggete:
compagnia di secolari). Se sapesse che il Cardinale è delle mie idee! Approva
il mio modo di agire, anzi vuole che io mi mescoli ai giovani per mostrar loro
che Cristo non ha rinnegata la gioia della vita, ma l’ha benedetta e
innalzata, e dissipare, così senza parere, tra un motto arguto e una cicalata,
dissipar dico, dei pregiudizi, combattere le idee errate, far del bene mentre
si ha l’aria di divertirsi, rimanere sacerdote, mentre si appare goliardo”.
Tale rimase per tutta la vita. Nell’aprile 1909 fu torturato da
un’artrite dolorosa. Soffrì senza cercare compatimento. “Dovrei
parlare di dolori?” scriveva al dott. Ernesto de Lellis, “ma dopo
me ne pentirei, come di una viltà imperdonabile”. È il Toniolo,
professore – amico, a rassicurare il vescovo e il rettore Del Prete (7
giugno 1909): “… Ebbi l’onore di comunicarle l’esito
veramente felicissimo degli esami di sessione straordinaria di aprile del Sac.
Vitale. Egli se ne incoraggiò talmente che, mercé lo studio sempre assiduo,
sorretto da una mente vigorosa e sottile, si proponeva di affrontare in
luglio… gran parte degli esami rimanenti… e laurearsi in novembre,
certo con grande onore. Disgraziatamente però… si pose a letto con febbre
non più interrotta, e con acutissimi, sebbene vaganti, dolori artritici, che
assolutamente gli rendono impossibile il minimo movimento, senza soccorso
altrui… Il medico è impensierito, perché alla sofferenza non piccola e
certo lunga, si aggiunge una debolezza di cuore alquanto allarmante… In
tanto speriamo in Dio e nella Vergine santissima”. Fu assistito, dice il
prof. Toniolo “da una santa e caritatevole signora, con grande pena e
fatica, giorno e notte” e confortato dalla zia Eleonora e dal dott.
Ernesto. Lo guarì, dopo l’ospedale, la cura a Monsummano, nelle grotte
infocate.
***
Nel ‘910 tornò a Piedimonte. Da mansionario di
Santa Maria Maggiore (1905), fu promosso canonico dell’Annunziata (1910).
La chiesa è unita al seminario dove insegnava e dimorava, e vi rimase tutta la
vita. Come aveva rinunziato ad insegnare a Montecassino, rinunziò a dignità più
elevate in diocesi. Al vescovo Noviello che insisteva in tal senso, rispose:
“Non è il posto che fa l’uomo, è l’uomo che illustra il posto”.
Fu questo l’ambiente in cui visse il sacerdote
e l’insegnante, ed appare contenuto. Quello sconfinato era nella sua
camera, in seminario, dove da un letto in un angolo, in mezzo ad un disordine
pittoresco, contemplava attraverso centinaia di volumi per nottate intere con
una visiera sugli occhi, quanto il genio ha creato, soffermandosi con più
simpatia sui prodotti letterari d’Italia. Ad una vita, in fondo, sempre
uguale, unica parentesi il viaggio annuale alle Settimane sociali in varie
città. Volle anche volare, da Ancona a Zara, e ritorno.
Il Fascismo gli aveva precluso l’attività
politica, e scaricò la sua energia nell’arte. Vendette un suo terreno a
S. Gregorio. Col ricavato, e con devoti contributi, incaricò Nicola
Fabbricatore di un dipinto nella cappellina delle Grazie, fra gli ulivi del
Cila. E l’artista gli consegnò una sua delicatissima copia della Madonna
del Magnificat del Botticelli, (con poche varianti), e ai lati un S.
Francesco e una S. Caterina, in cornici di oro brunito, in un ambientino
d’un celeste soffuso e digradante, tra una fioritura di gigli.
Nella tempesta del ’31 egli, sorvegliato
dell’OVRA, stette in disparte, poi venne l’Istituto “S.
Tommaso” e con esso apparve meglio al sua velentia. Fu preside dal
’40 alla morte, e lì lo trovò la seconda guerra. Questa da molti era
vista come “fascista”, e Vitale, patriota come nel ’15,
apparve – e con nostra meraviglia – sostenitore della resistenza e
del Governo. “Non si cambia cavallo in mezzo al guado” disse.
Il 25 luglio chiarì le cose. Nel terribile ottobre del
’43 il seminario fu invaso da persone atterrite, e fu ad un momento, il
17, dall’essere minato. Vitale era lì a confortarle.
In quel tragico mese, come nel ’21 al Mercato,
non aveva avuto paura d’intervenire in un comizio socialista, così il
Ed eccoci all’ultimo Vitale, quello del raggio
al tramonto, e del crepuscolo dei sensi. Nel ’46 si manifestò la malattia
che doveva portarlo, sessantaquattrenne, alla tomba: papilloma vescicale. Era
cosciente della gravità del male, e quando il vescovo Noviello lo condusse a
Napoli, era ormai tardi. Rifiutò l’operazione che ne avrebbe prolungato
alquanto l’esistenza, e la morte fu più dolorosa. “Sopportò la
malattia con una rassegnazione da destare ammirazione”, hanno detto i
suoi intimi, Dr. D’amore, P. Di Nardo, R. Simonetti, che lo curarono e
assisterono con affetto. Durò quasi un anno. Poi le continue emorragie lo
spensero, munito dei Sacramenti della Fede, togliendolo finalmente alle sofferenze,
il 5 aprile 1947.
Un accompagnamento funebre interminabile,
spettacolare, testimoniò la devozione che se ne aveva.
***
Non
era mia intenzione inzeppare di date i ricordi del Prof. Vitale. Sarebbe stato
ridicolo, in quanto la sua vita è stata dinamica interiormente, ma esternamente
quasi statica. Sarebbero date di bazzecole. E poi, non c’è forse una
storia senza date? I pochi avvenimenti della quale sono luci rivelatrici di una
mentalità e di una coscienza?
Guardiamo al carattere, alla coscienza del
Professore. Nessuno meglio, e più gustosamente di lui ce lo comunicherà, poiché
aveva una formidabile capacità introspettiva di sdoppiamento, e di analisi
della propria personalità.
In una lettera (luglio 1909), a proposito di mancati
auguri suoi per un compleanno, ecco come parla del «sé» intimo in terza
persona: “…bisogna ricordare che è strano molto strano, ha una
maniera tutta sua di pensare e di operare, per dirla in breve, è un vero
anarchico del senso comune e delle convenienze sociali! …anche lui,
sebbene viva sempre nel mondo della luna… era venuto a sapere che sulla
terra si usava festeggiare i compleanni… (Ora parla il «sé» superficiale,
esteriore, quello delle convenienze). Ho fatto l’impossibile per
convincerlo, se non altro della sconvenienza del suo modo di procedere: inutile
dire a voi che non sono riuscito, perché la sua testardaggine è nota… ho
tentato tutti i mezzi, ho tentato anche la famosa mozione degli affetti…
e lui, sensibile a questa corda, si è scosso, ha dato vibrazioni, ma poi è
ritornato di nuovo nell’immobilità capotica dei suoi principi pazzi ed
irritanti… Perché, mi diceva, perché si dovrebbe festeggiare il
compleanno? L’onomastico lo capisco, perché l’imposizione del nome
è l’affermazione della spiritualità e dell’individualità
dell’uomo… L’onomastico è la festa della nascita dello
spirito, è il compleanno dell’anima”.
È un brano stupendo, dal quale in una veste faceta,
l’indagine di sé stesso sbocca nella visione cristiana della vita.
Stupendo anche quel che segue: la manifestazione della personalità non
compresa, procura da parte dei mediocri affrettate definizioni e giudizi.
Ebbene, egli vi indulge – hanno i loro diritti anch’essi, – e
riesce a vedere sé stesso nell’esame degli altri: “Torno a
ripetervelo: il mio amico in fondo, forse molto in fondo, è un buon ragazzo, ma
strano, testardo, con un’idea pazza per capello. Per questo sua zia
Eleonora, donna pratica e navigata, quando venne a Pisa, in confidenza domandò
giustamente alla sora Teresa: «Come ha fatto a sopportarlo durante
l’anno?» e la sora Teresa… fece mostra di cadere dalle nuvole, e
chiese alla sua volta: «- Oh perché mi dice questo?» «Perché?» ripigliò la zia
naturalmente stupita, «con quel carattere così strambo, così scontroso, così
intrattabile…»”.
La lettera è un capolavoro. Nell’intimo e nei
rapporti egli si vedeva così… E prevedeva che il suo intimo, prevalendo
con l’età sulla vernice, sulla patina, lo avrebbe ridotto ad appartarsi
sempre più dal mondo delle convenienze: “…lui no, non è uomo da
stare in società, non sa mantenersi le simpatie e gli affetti che pure ispira a
tante anime indulgenti, ispira a causa dei suoi dolori immensi ed innumerevoli,
quasi come le sue stranezze… voi lo vedrete a poco a poco ridursi a viver
solo, più che non viva ora da misantropo, senza amici, senza parenti,
abbandonato da tutti pel suo carattere impossibile…”. Basta.
Profezia sbagliata. Il mondo non è interamente meschino da tener lontana, da
isolare l’anima superiore. San Giovanni Battista e Savonarola, gli
austeri che avevano rotto ogni rapporto col mondo, ebbero seguaci e ammiratori
a non finire! Gli alunni e gli amici del Prof. Vitale, anche quando non
afferrarono il movente delle sue azioni, capivano almeno questo: che aveva
delle ragioni che essi non comprendevano, e perciò non lo lasciarono. Né poi la
sua coscienza profonda mai interamente sommerse la mostra faceta, che tanto
attraeva.