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Aldo L. Prosdocimi

Il sannita

in "Studi sull'Italia dei Sanniti", Roma 2000, pp. 208-213

 

 

 

Premessa[1]

 

È da vario tempo[2] che sostengo la opportunità di sostituire la dizione di “sannita” a quella di “osco” per determinate manifestazioni linguistiche (e) culturali; la parentesi in cui è posta la congiunzione sintattica vuol significare che tra lingua e cultura come definitori della sanniticità vi è, più che congiunzione, compenetrazione e simbiosi nella realtà. Si potrebbe obiettare che “osco” è la etichetta che i Romani davano alla lingua sannita e che, di converso, non usavano il termine “sannita” per la lingua. Non è una obiezione per due ragioni, ciascuna dirimente:

  1. con “osco” erano comprese varietà di italico meridionale non sannita, o almeno non nel senso con cui io definisco il sannita: possono essere errati o illusori, ma i miei parametri definitori legittimano la sostituzione e/o la distinzione tra “osco” e “sannita”;
  2. il rapporto tra “osco” e “Sanniti” è lo stesso che tra “latino” e “Romani”; e “latine loqui” significa parlare il latino di Roma, anzi di una certa Roma che ha un ideale puristico e non significa certo parlare un latino laziale, sermo rusticus[3].

Nella concezione simbiotica tra lingua e cultura con accentuazione, nella mia prospettiva, sul versante cultura è causa/effetto che la sostituzione terminologica non sia la lana caprina di molte dispute terminologiche ove queste esprimano solo etichette, ma che sia indice di contenuti più o meno nel senso per cui nomina sunt consequentia rerum: sarà pertanto bene angolare il discorso dalle res. Una prima sezione delle res sarà informativa sul quadro attuale delle lingue (culture) italiche entro chi sta il sannita:poiché si è in un momento di revisione, l’esposizione dovrà bilanciarsi tra una vulgata (ius conditum) e un quadro futuro di cui si intravedono appena alcune motivazioni, non ancora il bozzetto. Una seconda parte si appunterà sul sannita.

 

 

Le lingue italiche

 

Si designa con il termine “italico” un gruppo di lingue strettamente imparentate, cioè con rapporti tali da definire una sottounità all’interno della famiglia indoeuropea. Le lingue italiche sono distribuite su un’area assai vasta, che copre l’Italia centromeridionale (con esclusione del Lazio, di lingua latina, e della Puglia, dove è attestato il messapico). A indicare la stessa realtà si usa, oltre a “italico”, anche la dicitura di “osco-umbro”.

La vulgata tradizionale inquadra l’italico/osco-umbro in un arco cronologico che parte dal VI-V secolo a.C.fino alla romanizzazione, comprendendovi come lingue l’osco, l’umbro e anche i dialetti minori o sabellici.

 

 

L’osco

Il termine secondo la terminologia tradizionale, indica, con qualche improprietà, le lingue delle popolazioni stanziate nel Sannio, in Campania, in Lucania e nel Bruzzio (attuale Calabria). Dell’osco (=sannita nella mia terminologia restrittiva) si possiede una ricca e multiforme documentazione epigrafica, a partire dal VI-V secolo a.C.: tra le iscrizioni più importanti, il Cippo di Abella (trattato tra Abella e Nola), la Tavola di Agnone (calendario rituale), il gruppo delle iovile di Capua (iscrizioni di gruppi familiari gentilizi connessi con specifiche cerimonie), la Tavola Bantina (lex di Bastia), le defixiones (tavolette esecratorie), le iscrizioni pubbliche da Pietrabbondante ecc. Le scritture usate sono un alfabeto di elaborazione locale, derivato da modello etrusco, in Campania e nel Sannio un alfabeto greco con adattamento in Lucania e nel Bruzzio; nei documenti più tardi, l’alfabeto è latino.

 

L’umbro

L’area interessata comprende i territori tra la riva sinistra del Tevere e il corso della Nera: la documentazione proviene da Gubbio, Todi, Assisi, Mevania. Tranne un piccolo gruppo di iscrizioni di diversa natura, la testimonianza della lingua umbra è data d quell’eccezionale documento che sono le Tavole iguvine.

 

I dialetti minori o sabellici

Sotto questo nome vengono riunite le testimonianze linguistiche di un gruppo di popoli i cui nomi sono noti dalla tradizione antica, stanziati nella fascia dell’Italia centrale: Sabini nella conca di Rieti; Vestini e Marrucini tra l’Appennino e il versante adriatico; Peligni, Equi e Marsi nella regione attorno al Fucino; Volsci nel Lazio meridionale; e altri ancora. Il corpus è costituito da dediche pubbliche, iscrizioni funerarie, iscrizioni votive, leges sacrae; la datazione è relativamente tarda (dal III secolo in poi) e l’influsso culturale (e politico) di Roma è evidente: l’alfabeto in uso è quello latino, e anche nelle lingue si riconosce, in misura minore o maggiore, l’incidenza del contatto con la lingua di Roma (cfr. nota 7).

Dal punto di vista della classificazione linguistica, si individuano tradizionalmente due poli principali: l’umbro, con caratteri linguistici innovativi a nord, e l’osco, di tipo più conservativo a sud: tra questi due estremi si distribuiscono i dialetti minori che, in ragione della posizione geografica, mostrano affinità più strette nei confronti dell’uno o dell’altro polo; così il marrucino, più settentrionale, si rivela più affine all’umbro; il peligno, più meridionale, più affine all’osco.

In questi termini si poneva il quadro tradizionale, non errato ma, come detto, riduttivo: la realtà dell’italico è alquanto più complessa della schematizzazione “osco-umbro-dialetti minori”, schematizzazione che, escludendo dalla sistemazione dati epigrafici importanti perché isolati o di difficile definizione, appiattisce arealmente e cronologicamente lo spazio dell’italico e impedisce di cogliere le linee del processo di formazione di questa realtà, e cioè superando la visione strettamente genealogista del farsi dell’italico in territorio italiano, impedisce di riconoscervi una stratificazione dovuta al coagularsi di entità diverse in forma di coinai linguistico-culturali o, viceversa, all’affioramento di autonomie locali, in apparente contrapposizione (in realtà evoluzione) rispetto allo stadio precedente ecc.

Al seguito di nuove acquisizioni, tra cui la provata iscrizione dell’iscrizioni sudpicene (o medioadriatiche) all’italico settentrionale di tipo paleoumbro[4], si può porre una configurazione (come detto non ancora ‘quadro’) alquanto diversa da quella canonica.

Si offre pertanto uno schizzo di periodizzazione culturale in base ai documenti di lingua; sottolineo aspetto ‘culturale’ e non ‘linguistico’ in senso stretto: non si tratta qui di parentela nel senso inteso dalla linguistica classificatoria ma, su questo sfondo, dell’emergere di italicità linguistica come fenomeno di cultura (espressione di una base socioeconomica che spetta ad altri di individuare). Questa italicità trova espressione documentale nella scrittura, cioè in quanto la scrittura sottende la lingua come coagulata in una coinè o lingua ‘letteraria’ (intendo letterario in senso antropologico e non bellettristico).

Questa rassegna è data in sequenza cronologica combinata con una proiezione areale, grosso modo da nord a sud; è legittimo fin d’ora porre la questione del rapporto tra l’emergere-delinearsi culturale e l’espansione; non vi saranno risposte anche perché dovranno essere il risultato di convergenze disciplinari e, più, di un ripensamento dello stesso senso di concetti e modelli quali espansione, oltre il tipo ver sacrum, o la semplice invasione di certa storiografia antica e, al suo seguito, moderna.

 

Al VII secolo a.C. vi sono affioramenti documentali di un tipo linguistico sicuramente italico: l’iscrizione da Poggio Sommavilla (esito delle aspirate, sincope delle brevi finali). Significativa è l’area di affioramenti che indicano l’area sabina e, non sarà un caso, la collegata Umbria, fino al Lazio, quindi un italico ‘settentrionale’. Al VI secolo emerge, non solo affiora, un italico di tipo umbroide rappresentato dalle iscrizioni sudpicene, collegato ad una cultura ben definita, che continua fiorente nel V secolo e si fa esaurendo alla fine del secolo e nel corso del IV secolo. È collegata culturalmente (alfabeto) all’iscrizione di Poggio Sommavilla e (alfabeto e tratto morfologico -es(ie)sum) all’iscrizioni protocampane (Nocera-Vico Equense) della metà del VI secolo a.C. Nello stesso e nei successivi secoli vi sono in Sabina tradizioni culturali che continuano le precedenti, ma con differenziazioni, quasi rivoli indipendenti.

In questo quadro trova posto un’iscrizione della sabina Cures (V secolo) in grafia e contenuti “sudpiceni” che si collega alla menzione di Safini (=Sabini) nelle iscrizioni di Penna Sant’Andrea: il senso storico di questo doppio collegamento deve ancora essere focalizzato negli aspetti essenziali. Dello stesso VI secolo è l’affioramento italico dell’iscrizione del Mendolito in Sicilia, il che presuppone una estensione di italicità antica a tutta la penisola, Bruttium e Lucania compresi[5]. Ritornando all’altro italico documentato, cioè dal VI secolo a.C., questo è un tipo di italico “meridionale” od “osco non sannita”, che è rappresentato dall’iscrizione (V secolo a.C.) di Nerulum (attuale Castelluccio in area bruzzia)[6] e dalla documentazione di tratti italici con iscrizioni etrusco-campane, o campano-italico meridionale. Anche per ragioni politiche (crisi generale del V secolo) decade l’unità culturale e la correlata coinè sudpicena. Al suo estremo nel Sannio e al di fuori di essa (tanto è vero che dal Sannio non proviene alcuna iscrizione sudpicena; la più meridionale arriva dall’area peligna), con un secolo di ritardo rispetto al formarsi della coinè sudpicena, cioè nella fase iniziale del V secolo a.C., si forma una nuova realtà politica e culturale, quella dei Sanniti: a questa corrisponde una coinè linguistica e scrittoria (cfr. avanti “la formazione del sannita”).

Il dissolversi dell’orizzonte culturale sudpiceno (e continuo a insistere sulla linguisticità del culturale, tramite il concetto di coinè) lascia un vuoto che consente l’emergere delle unità regionali con gli etnici storicamente conosciuti: Picentes, Praetuttii, Marrucini ecc. L’assunzione di alfabeto latino, rispetto a quello precedente, è il segno dello iato culturale, mentre l’essere attestati come etnici e collegati ad iscrizioni solo da questa data non comporta la precedente esistenza di esse divisioni, intese come differenze dialettali e cantonali, non affioranti nella coinè documentale (ma l’unitarietà della documentazione sudpicena, che mostra qualche tratto di differenziazione, sarà da verificare ulteriormente). Dato il presupposto di influsso culturale nell’adozione dell’alfabeto, è da supporre anche un influsso linguistico: nel pelino ciò è evidente anche se non così totale come nel marso (romanizzazione nel giro di due generazioni a partire dall’inizio del III secolo)[7].

L’umbro ha una storia diversa dalle precedenti, per alcuni aspetti parallela a quella sannita. Non è un paradosso che l’umbro, così prossimo, anzi, meglio, della stessa base linguistica della coinè sudpicena, non la continua come cultura (alfabetica) ma, invece, come il sannita, che ne è autonomi fin dall’inizio, assume un alfabeto etrusco. La ragione, secondo me sempre culturale, in una situazione del tutto diversa; vi gioca sempre la marginalità, l’umbro al nord, il sannita al sud, ma con una differenza sostanziale: mentre l’alfabeto sannita, come si vedrà, è correlato ad una situazione emergente e attiva, con una autocoscienza nazionale, l’adozione dell’alfabeto etrusco per l’umbro è correlata ad una situazione di ristagno marginale; l’alfabeto è subìto.

Quanto va delineandosi muta i termini delle varietà dialettali tra nord e sud. Il quadro tradizionale si basava su due poli, l’umbro sostanzialmente iguvino nel nord, l’osco sostanzialmente il sannita ma senza la distinzione col resto nel sud; gli altri dialetti (“minori”) erano graduati tra questi due estremi. Tende ora a delinearsi una dicotomia (di data antica) tra nord e sud, non senza, ma certo con meno transizioni che si pensasse (e che sono normali per la geografia linguistica) del continuum dialettale dovuto a polarizzazioni centrali e cesure marginali di natura culturale.

Ultima fase è quella della romanizzazione, cioè della dissoluzione delle lingue italiche nella romanità. Non è qui la sede per trattarne, ma ricordo che la romanizzazione linguistica è un fenomeno complesso e variegato per le diverse situazioni politiche, sociali, culturali, da entrambi i lati romanità e italicità in sé e più nel contatto[8].

Abbiamo proposto una cronologia dell’affiorare culturale degli ‘Italici’ nelle varie aree con una progressione dalla Sabina verso l’est e il sud a partire dal VII secolo a.C. fino al VI-V, quando i Sanniti-Lucani si sovrappongono in Lucania ad una precedente stratificazione, probabilmente italica di tipo bruzzio.

Detto ciò, quale proposito interdisciplinare, avanzo una possibilità di sovrapporre le fonti storiche al quadro che abbiamo delineato in base alle fonti documentali dirette[9]. Zenodoto (in Dion. Hal. II, 49) parla di Sabini autoctoni da cui sarebbero derivati i Bruzzi. Sovrapponendo si avrebbe:

 

Umbri

Sabini

Picentini -------------------------- Sanniti

 

Lucani

Bruzzi

 

Questo corrisponde al quadro dell’emergere culturale (Sabini, Piceni, Sanniti) combinato con una precedente italicità. Cioè, poste le premesse:

sabino, umbro e sudpiceno costituiscono una sola varietà di lingua, culturalmente collegata:

per l’area costiera, corrispondente all’area delle iscrizioni sudpicene, si parla di Umbri, quindi con una precisa identificazione e, insieme, l’area sudpicena è strettamente collegata, fino all’identificazione, coi Sabini;

i Sanniti si sono sovrapposti in Lucania a uno strato ‘italico’ di tipo bruzzio, per cui si può parlare di Lucani = Bruzzi e Lucani = Sanniti, che in Campania si sono sovrapposti a uno strato precedente (prossimo quanto si voglia ma, definitoriamente, distinto da quello ‘presannita’ dal punto di vista culturale e della coinè linguistica che ne è espressione); si può riproporre lo schema storiografico sopra indicato nei termini seguenti:

 

Umbri

Sabini

Picentini --------------------- Sanniti

(=sudpiceno

(su Campani)                           Lucani2 su Lucani1

= Presanniti                                         =

in Campania                            Bruzzi

 

Umbri e Sabini sono equivalenti, ma il centro propulsore sono i Sabini; i Sanniti si sovrappongono in Lucania ad un precedente strato italico affine a quello bruzzio, donde la sequenza Sanniti® Bruzzi per una trasposizione tra i Lucani-Sanniti e i Lucani-Bruzzi.

In Campania i Sanniti si sovrappongono ad uno strato italico; di questa sovrapposizione non ha traccia la genealogia del passo citato di Stradone, ma ne ha, più che solo traccia, penso, la storiografia antica, ma anche moderna, fiancheggiata da una linguistica che all’insegna di osco confonde varietà linguistiche, culturali, cronologiche diverse.

 

 

La formazione del sannita

 

Si è visto che il confine meridionale dell’orizzonte sudpiceno non arriva al Sannio, né alla Campania. La Campania del VI-V secolo ha una propria cultura (alfabetica e in senso proprio), dominata dall’elemento etrusco. Resta a parte il Sannio, che avrà poi una propria cultura alfabetica, con un collegamente biunivoco alfabeto-cultura per una notevole area, così da dover parlare di una coinè. L’interpretazione mi pare obbligata: il Sannio matur ala sua identità culturale più tardi delle aree predette, ma la matura in modo più pregante e identificato, per cui è legittimo ritenere il termine”sannita” per definizione, in quanto questo sannita è definito su base di una coinè, come l’aretino o il lucchese trecentesco erano prossimi al fiorentino ma non erano l’italiano di base fiorentina della coinè di Dante, Tetrarca, Boccaccio; meglio: erano prossimi al fiorentino, ma il fiorentino stesso (in senso stretto), il lucchese, l’aretino non sono contrapponibili all’italiano perché l’italiano come coinè letteraria da una parte e dialetti dall’altra sono entità non omogenee. Questa impostazione elimina gli equivoci dell’italico osco, non osco, ecc. della Campania; equivoci nei moderni ma credo alla base di contraddizioni o confusioni già nelle fonti antiche. La fonte dell’equivoco e la chiave per identificarlo, se non per risolverlo, sta nella rigorosa precisazione di lingua come espressione culturale vs. lingua come parentela genealogica o di qualificazione dialettale intesa come trasparenza sincronica rispetto ad un altro dialetto prossimo. Tra il sannita e l’indeuropeo campano presannita c’era ovviamente parentela genealogica e, per contiguità areale, verosimilmente c’era anche identità o similarità di fenomeni di lingua e c’era, verosimilmente, trasparenza, cioè possibilità di riconoscere forme e strutture similari, al limite di capirsi e comunicare; ma ciò non comporta possibilità di identificazione tra il sannita di coinè di V secolo a.C. quale lingua prodotto della cultura sannita e i dialetti prossimi che non vi sono entrati: qui c’è lo iato rispetto alla realtà precedente e pertanto come i Sanniti ‘occupano”, così il sannita ‘si impone’; se poi i Sanniti occupanti sono simili e ‘parenti’ dei precedenti Campani e con questi si fondono naturalmente creando una nuova realtà, è altrettanto verosimile che il sannita ‘ufficiale’ che si impone su una realtà precedente contempli l’esistenza di varietà dell’italico preesistenti. Ciò che è a priori verosimilmente si può comprovare da alcuni affioramenti:

  1. differenze dello strato presannita (es.: iscrizioni di Nocera e Vico) dal sannita e al suo interno (es.: Nocera e Vico; Ve. 101);
  2. affinità dello strato precedente col sannita (es. Ve. 101 e italico delle iscrizioni a grafia etrusca);
  3. differenziazioni entro la fase sannita (es.: iscrizioni di Saticula),
  4. collegamento con altre aree italiche non sannite sia nella fase cronologica presannita, sia nella fase cronologia sannita.

Di conseguenza sarà da usare “sannita” o “osco-sannita” in senso restrittivo. Il termine “osco” potrebbe essere riservato a designare un italico presannita o non sannita dell’area, ove si dimostri la preesistenza di un italico e non di un generico indeuropeo presannita oppure dopo aver definito in qual termini un certo indeuropeo presannita è italico. Fino a quel momento “osco” dovrebbe essere sinonimo di presannita, di non sannita o di campano potenzialmente anche sannita ma senza sicurezza attributiva.

Abbiamo dato sopra una definizione restrittiva di sannita collegata alla coinè grafica che ne è il supporto: come tale abbiamo una notevole uniformità che collega Sannio e Campania per notevole spazio e tempo, il che conferma il carattere di coinè, cioè di una lingua che ha una costituzione (in corrispondenza della sua funzione) tale da non comportare in sé (e per noi nell’affiorare documentario) variegature dialettali.

Rispetto a questi materiali in alfabeto locale vi sono la sezione in alfabeto greco, che distinguerei nel corpus lucano e in quello mamertino, tenendo separata l’area bruzzia, la sezione nell’alfabeto latino della tavola bantina per cui, data la nostra definizione di sannita, basata anche sul fatto scrittorio, si pone il problema di qualificare questa realtà rispetto al sannita stesso.

Resta la questione della italicità del lucano che nella prospettiva mia (e di altri) si identifica con il sannita in area lucana. La lingua sannita-lucana presenta delle differenze rispetto al corpus in grafia sannitica propria, ma queste differenze non sono antisannite; si tratta di conservazioni che il sannita di VI-V secolo conosce (es.: di-, -fs) e di innovazioni (sonorizzanti di consonanti intervocaliche) che il sannita non conosce, o che conosce ma che la coinè linguistico scrittoria non fa affiorare, ma Lucania e Sannio-Campania sono due aree con storie diverse e quindi con storie linguistiche diverse: è un truismo ma è la chiave interpretativa. Il lucano da una parte e il Sannio-Campania dall’altra, avendo storie diverse, almeno a partire da un certo punto nel tempo, conservano o innovano in modi e tempi diversi. Il problema è: da quanto tempo le storie sono diverse? Quanto diverse sono le storie? Se si pone una matrice comune, la cronologia ha un ante quem alle prime manifestazioni di presenza sannita in Lucania; su questo punto ci sono delle divergenze (negli storici archeologi tra V e IV secolo a.C., forse componibili tra una penetrazione di V secolo a.C. concomitante con quella campana e un affiorare ‘politico’ di IV secolo a.C. In ogni caso sono comunque evidenti le implicazioni storiche, sia per quanto concerne la Lucania, qui nel rapporto tra i nuovi venuti e i precedenti, verosimilmente italici non Sanniti di tipo Bruzzio; sia per quanto concerne il parallelo con l’espansione in Campania. La questione del lucano si va configurando sempre più complessa archeologicamente e storicamente e, in ciò, l’aspetto linguistico e alfabetico ha e, prevedibilmente, avrà sempre più rilevanza: proprio per questo non è possibile in questa sede darne conto neppure in riassunto; mi limito a segnalare un  punto che appare sempre più evidente come problematico ma anche come fondato su indizi consistenti: si tratta del rapporto e comunicazione che continuava a persistere tra i Sanniti (ormai) stanziati in aree diverse anche diversamente polarizzate come economia, politica e/o cultura. Vi sono ragioni per pensare che i contatti linguistici e alfabetici (culturali) (che altrove ho definito “cerniere”) fossero più profondi di quanto faccia pensare una prima impressione tesa ad accentuare iati, che certamente esistono ma più nella superficie che in profondità.

Ometto qui la rassegna di varietà dialettali nella Campania sannitizzata, sacche di conservazione delle varietà dialettali della fase precedente la sannitizzazione[10].

 

 

Conclusione

 

Il sannita è stato definito come lingua di una coinè formata nel Sannio nel V secolo a.C. e di lì irradiata. Come lingua di coinè ha una sostanza linguistica ma anche una dimensione culturale più ampia in cui entra il fenomeno scrittura. Questa definizione oppone il sannita alle altre varietà di indoeuropeo prossime (= italico in termini da definirsi) varietà preesistenti o coesistenti, non quanto a grado di differenze dialettali che, come detto, possono essere state anche minime ma in quanto vi è rapporto con una precisa identità etnico-culturale, il che produce a sua volta una diversa meccanica di estrinsecazione della varietà linguistica, sia in sincronia (= coesistenza), che in diacronia (evoluzione). In quanto coinè il sannita è per principio senza varietà; in quanto lingua naturale, o meglio, per quanto concerne il sannita documentato, in quanto faccia di quel prisma che è una lingua naturale, il sannita assume varietà per evoluzione e per stratificazione interna (livelli sociolinguistici).

Nel lucano, cioè nel sannita in alfabeto greco, si hanno fenomeni fonetici diversi rispetto al sannita in alfabeto encorio: si tratta di evoluzione per storia (parzialmente) diversa e per (parziale) soluzione di continuità culturale: poiché unitarietà di storia e di cultura sono definitorie di coinè e quindi della sua fissità come nel suo evolvere, cioè del suo variare o non variare, la diversità tra questi due rami è fisiologica (ma sarà da ricordare quella circolazione ‘sotterranea’ di cui si è parlato). Oltre a questo variare nel tempo il sannita, come lingua naturale, conosce una varietà interna nella stratificazione sociolinguistica; questa varietà come è normale ove ci siano coinai scrittorie non dovrebbe di norma apparire perché è per noi filtrata dal documento scritto che è per sua natura espressione della coinè connessa con la scrittura. In realtà come di norma avviene, anche se con varia gradualità il rapporto alle varie situazioni culturali dalla documentazione scrittoria, tendenzialmente senza variazioni, filtrano le forme variate degli altri stati linguistici della stessa lingua da questo punto di vista definizioni quali “dialettali” sono improprie o non danno ragione della realtà linguistica nella corretta dinamica. Tra le forme che affiorano come varietà alcune possono essere la continuazione o la trasformazione dell’antica varietà sociolinguistica interna, altre possono essere acquisite da strati dialettali precedenti cui si è imposto il nuovo sistema; a queste si può, volendo, attribuire il termine di “dialettali” ma con l’obbligo di definire prima quale è la posizione sociolinguistica di questa dialettalità: è una dialettalità ormai integrata nel sannita come appartenente a un suo livello o varietà locale accettata? Oppure si tratta di una varietà dialettale non integrata nel sannita nel senso sopra definito, cioè si ha una sacca di conservazione dialettale optimo iure? Aver individuato la varietà sotto la coinè sannita è la scoperta dell’acqua calda, perché ogni lingua naturale è varietà; è invece qualcosa di più che quella proverbiale scoperta se contro una certa prospettiva si pone in una più corretta posizione (socio) linguistica il sannita documentale, e si inizia a delineare l’attribuzione delle varietà entro il sannita e per arrivare, da ultimo, a tentare di delineare la posizione del sannita rispetto ad altra precedente, poi eventualmente coesistente, lingua indoeuropea anche se italica o non italica nei termini canonici e, ivi, in quali termini giochi l’a coesistenza della stessa.

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[1] Quanto segue corrisponde a un testo già apparso in due sedi: nel numero zero di una rivista (“Samnium”), che poi non ha avuto seguito, e, in Il mutevole aspetto di Clio (Prosdocimi 1994, pp. 59-74); la prima sede prefigurava precisamente quanto sarebbe stato il contenuto di questa mostra, e pertanto ho ritenuto di riprenderlo con aggiornamenti minimi.

[2] Ho ‘ufficializzato’ la proposta nella relazione a me tenuta al Convegno dell’Istituto di Studi Etruschi ed Italici sul Sannio e la Campania (Benevento 1981): il titolo programmatico era “La sannitizzazione della Campania” (poi comparso negli Atti come Note su ‘Italico’ e ‘Sannita’, in La Campania 1992, pp. 119-148). Altri miei lavori coevi o posteriori in cui la tematica è trattata o accennata (in questi anche ulteriore bibliografia) sono: Prosdocimi 1984, pp. 59-70; Prosdocimi 1987, pp. 55-88; Prosdocimi 1987a, pp. 53-64. Inoltre: Prosdocimi 1979, pp. 119-204. Un panorama più ampio è in Prosdocimi 1995, p. 163. Per l’etnico safino- vd. Martinetti 1985; De Simone 1992, pp. 223-239; il tema sarà ripreso nella relazione al Convegno sui Piceni (aprile 2000) come prosieguo e integrazione dell’articolo del Catalogo sulla Mostra omonima (Francoforte 1999; inaugurazione al 12 dicembre). Purtroppo la traduzione tedesca non è stata rivista dall’autore, da cui non pochi fraintendimenti; si rimanda al testo italiano che comparirà quando a mostra si trasferirà in Italia, nel 2000. Per le iscrizioni si rimanda alla silloge (comoda ma qualitativamente e quantitativamente invecchiata) di E. Vetter, da aggiornare al 1978-79 con Poccetti 1979, che ne ripropone le caratteristiche, come dichiarato dal titolo. Per le novità assolute o di revisione si vedano la “Rivista di Epigrafia Italica”, a cura di A. L. Prosdocimi, sezione di “Studi Etruschi”, a cadenza annuale a partire dal 1973; i volumi della collana “Lingue e iscrizioni dell’Italia antica” (Olschki, Firenze) diretta da A. L. Prosdocimi (finora comparsi: Agostiniani 1977; Franchi De Bellis 1981; Agostiniani 1982; Prosdocimi 1984; Martinetti 1985; Rocca 1996). Si veda inoltre Lingue e dialetti 1978.

[3] Su ciò cfr. il frammento di Titanio “qui obsce et volse fabulantur nam latino nesciunt” (in Festo 204 L): sul senso di latine loqui come fabulari in latino urbano e di alto livello vd. A. L. Prosdocimi in più luoghi tra cui Prosdocimi 1978, pp. 1029-1088, spec . 1038 ss., Prosdocimi 1989, pp. 11-91; cfr. ora Prosdocimi 1998a.

[4] Sul sudpiceno come “paleoumbro” vd. Prosdocimi 1976 e Martinetti 1985.

[5] La italicità del siculo è stata più volte avanzata; credo di averla dimostrata in tratti qualificanti quali la morfologia nominale e la struttura del verbo al preferito: vd. da ultimo Prosdocimi 1995 e Prosdocimi 1998, pp. 333-346 (spunti già in Prosdocimi 1978a,  pp. 1-62); per la terminologia istituzionale del Mendolito resta valido il nucleo esposto in Prosdocimi (Agostiniani) 1976-1977, pp. 215-253, e in Prosdocimi 1978b, pp. 29-74. Questo ed altro di sparso concernente il tema sarà ripreso dall’autore in un lavoro d’insieme. Sul siculo, in attesa della ‘somma’ promessa da L. Agostiniani, si veda Agostiniani 1992, pp. 125-157.

[6] Su Bretti e Brettio vd. anche Bruttii 1998.

Si attende la pubblicazione e commento di un lungo testo affidato alle cure di M. L. Lazzaroni e P. Poccetti; consta che sia stata fatta una presentazione ma a tutt’oggi (fine 1999) non è comparso niente di pubblicato o, se pubblicato in qualche sede, confesso che mi è sfuggito.

[7] Su ciò Peruzzi 1961, pp. 165-194 e Peruzzi 1962, pp. 117-140, ma vd. anche Martinetti 1984-1985, pp. 65-89. Tutta la questione è ora rivista da Prosdocimi 1989, Del tutto Palma 1989.

[8] Sui problemi connessi alla romanizzazione linguistica delle aree italiche vd. Prosdocimi 1989.

[9] Per questo rimando alla magistrale illustrazione di Musti nel Convegno di Acquasparta del 1984.

[10] Per queste rimando alla citata relazione al Convegno di Benevento del 1981, cit. a nota 2.