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Giuseppe Mennone

 

CAPITOLO IX

Alife ancora esistente - antichità della sua fondazione - sue successive vicende fino a che fu venduta e dopo - suo stato attuale

 

§ 1°.

Antichità d’Alife

 

 

In quanto all’antichità della fondazione d’Alife vi sono diverse opinioni. Però la più ritenuta è quella del Ciarlanti, e del Giorgi e del Trutta, i quali opinano che essa non fu fondata dai Sanniti, schiatta Sabina, come Boiano ed altre città Sannitiche, ma che preesisteva [43] alla loro venuta, e fu fondata dai Greci nel ritorno che facevano dalla presa di Troia quando per effetto di forte tempesta di mare con le loro navi approdarono presso i nostri luoghi e vi si fermarono a dimorare fondandovi città; sicché quando vi vennero i Sanniti, era già abitata dai Greci Spartani e dagli Osci, e poi si confederò con i Sanniti, i quali presero prevalenze in questa quarta Regione d’Italia, che Plinio dice essere il vero Sannio, perché tutto occupato dai Sanniti, e perciò tutti gli scrittori antichi la numerano fra le principali città Sannitiche. Ritenendosi l’opinione dei tre suddetti bisogna dire che la fondazione d’Alife sia stata precedente a quella di Roma; da poiché, secondo Erodoto ed altri, è generalmente ritenuto che la presa di Troia avvenne l’anno 1270 avanti G. Cristo ed io perciò ne fo la seguente cronologia,

 

Troia distrutta l’anno 1270 avanti G. C.

Fino al presente 1894 dopo G. C.

Sono anni 3162.

 

Fondaz. di Roma anni 748 avanti G. C.

Fino all’anno presente 1894 dopo G. C.

Sono anni 2642.

Quindi dalla distruzione di Troia fin ora sono anni 3164

 

Dalla Fondazione di Roma fin ora sono anni 2642


 


[44] Sicché Alife si troverebbe prima di Roma per 522 anni.

Vi è pure il ratto delle Sabine operato dai compagni di Romolo per popolare Roma, che era all’infanzia della sua esistenza. Tal fatto essendo avvenuto dopo che erano partiti dalla Sabina i Sabelli, (che poi qui si dissero Sanniti, quando questi già avevano fondate le primitive loro città Sannitiche in questa nostra Regione, e di Roma forse non esisteva ancora il nome) fa arguire che Alife, prima che Roma fosse stata fondata, già esisteva. Quindi Alife, o che sia stata fondata dai Greci, dagli Osci o dai Sanniti, si troverebbe sempre fondata prima di Roma.

Sia come si voglia, fu Alife una delle sette città principali del Sannio, e secondo il Frezza una delle quattro. Essa fin da che ebbe origine ed in tutto il tempo delle sue grandezze e sventure fu sempre ove attualmente esiste, ed ora quantunque decaduta dalle sue passate grandezze, seguita a vivere qual vecchia veneranda e squallida matrona assisa poco distante dalla riva sinistra del Volturno, quasi nel centro della vasta, ridente ed ubertosa pianura che ne prese il derivativo, e che è tutta inaffiata dalle [45] limpide acque del fiumicello Torano, godendo di un clima discretamente mite. Prima che fosse stata soggiogata dai Romani era grande, ricca e popolatissima, racchiusa in più vasto recinto di mura, e tutto lo spazio era occupato dalle case dei cittadini e dai pubblici edifizi; ma da forte terremoto, secondo il Trutta, fu quasi interamente distrutta.

I cittadini, che sovrastarono a tal catastrofe, non seppero allontanarsi dalla madre patria e la rifecero. Alife seguitò a reggersi da se stessa, come dalla sua origine, e così continuò anche dopo di essere divenuta Sannitica, meno per talune leggi comuni a tutto il Sannio, come quella del matrimonio delle donne, di cui si è parlato. Per tutt’altro però, come confederata dei Sanniti, fu sempre consorte nelle glorie e nelle sventure di tutto il Sannio. Tale era lo stato di Alife prima di essere stata presa la prima volta dai Romani, come appresso.

 

§ 2°

Alife presa la prima volta dai Romani

 

I Sanniti erano di loro natura bellicosi e dominati da inestinguibile sete di dominio, e perciò erano in quasi continue guerre e rap- [46] presaglie con i popoli circostanti. Ma l’insazietà fisicamente e moralmente produce sempre dannosi effetti. La potenza Sannitica aveva fatto il suo tempo, giiunta era finalmente l’ora fatale della rovina dei Sanniti.

Essi erano in guerra con i Sedicini, e da tal guerra sviluppò la scintilla del vasto incendio che poi distrusse tutto il Sannio, le cui prime città disgraziate furono Alife, Callife e Rufrio. Ciò è narrato da Livio in tal modo.

Tra i Romani ed i Sanniti vi era piuttosto amicizia, ma una estrinseca occasione la ruppe e fu la seguente.

I Sanniti travagliavano spesso i Sedicini e li opprimevano. Questi essendo di minor forza ricorsero per aiuto ai Campani che avevano forze maggiori, i quali loro si congiunsero e per difenderli si armarono. Ma essi che erano avvezzi agli agi e alle comodità della vita e non alle armi, portarono un aiuto più di nome che di forza, e perciò furono dai Sanniti facilmente scacciati dal paese dei Sedicini tirando contro loro stessi tutto il peso della guerra. Cosicché i Sanniti li assediarono nella loro fortezza, ottennero facile vittoria riportandone [47] molta preda e gloria ed impossessatisi di quella fortezza la munirono con forte presidio unitamente a Tifati e alle colline che sovrastarono Capua. Indi a schiera quadrata discesero al piano che è in mezzo tra Capua e Tifati. Ivi fu fatta altra aspera battaglia, nella quale i Campani furono vinti e si ricoverarono dentro le loro mura, dopo che vi perdettero il fiore della loro gioventù. Non avendo poi forze bastanti per ripararsi, né speranza di vicino soccorso, furono costretti a chiedere aiuto ai Romani supplicando che in sì estremo bisogno loro avessero dato ogni possibile aiuto, altrimenti la città sì famosa, capitale di tutta la Campania, e la sua fertilissima Regione non solo per allora, ma per sempre sarebbe divenuta preda e soggetta a sì potenti nemici. La dura necessità è sempre dottissima di rettorici colori, ed il Senato prendendo in considerazione la dimanda fece loro rispondere dal Console che il Senato li giudicava degni di soccorso, ma che era più degna azione conservare l’antica amicizia con i Sanniti. Perciò loro negarono le armi, ma però promisero che avrebbero mandati ambasciatori a quelli come ad amici e [48] compagni a pregarli che per il rispetto loro non facessero più violenze ai Campani. Non parendo ai legati ciò di giovamento, il maggiore di essi soggiunse: « Poiché voi, Romani, non ci volete difendere contro la potenza di costoro, difenderete certo le vostre cose proprie, e perciò al vostro libero dominio consegniamo e sottomettiamo il popolo Campano, la città di Capua, i campi, i Tempii ed ogni altro nostro avere, e quanto saremo per patire appresso, come vostri redditizii ». E dicendo così, egli ed i suoi compagni stendendo le mani ai Consoli in atto supplichevoli e versando lagrime si buttarono avanti al limitare della Curia. A tale atto miserando tutti i Padri si commossero, vedendo in tale avvilimento un popolo si famoso, che d’assoluto padrone si dava volontariamente per ischiavo. Quindi giudicarono che come cosa propria dovevano dar loro soccorso e difenderli. Perciò subito spedirono legati ai Sanniti, perché loro esponessero le preghiere dei Campani, e la risposta del Senato ricordando la loro amicizia, e pregando che per loro rispetto volessero perdonare a quel popolo, e non portare armi nemiche in quel [49] paese che si era fatto proprio dei Romani e se ciò non giovava, loro ordinassero di levarsi da Capua e dal territorio Campano. Fu proposto tutto ciò nel Consiglio dei Sanniti, e questi non solo diedero furibonda risposta cioè che dalla guerra non volevano desistere, ma ancora in presenza di essi fecero uscire dalla Curia i loro Magistrati, i quali comandarono ad alta voce ai capi del loro esercito che senza indugio andassero a far preda e danni nel paese dei Campani. Le molte prosperità che avevano avuto con altri popoli convicini li resero si fieri; e siccome l’eccellenza del vino forza a bere oltre la sete, così questa dolcezza li ubriacò e li condusse più oltre di quello che essi non prevedevano. Ad animi innalzati non manca furore, e cuore infuriato no pensa!

Riferito ciò in Senato, questo lasciando da parte qualunque alta cura, loro spedì un Feciale, a ripetere il tutto, ed avendo esposto ogni cosa, e non ottenuto nulla, intimò ad essi la guerra secondo il loro solenne rito: Laonde per ordine del popolo, posti in ordine due fioriti eserciti, uscirono ambidue i Consoli Valerio in Campania in Monte Gauro e Cornelio nel Sannio a Saticola.

[50] Fu da entrambe le parti ed in ambidue i luoghi fieramente combattuto, e l’uno fece pruova del valore dell’altro. Ma finalmente, secondo il detto di Livio, i Romani entrarono nel Sannio, presero e distrussero eodem tempore, cioè nel medesimo tempo, Alife, Callife e Rufrio che erano tre città del Sannio poco discoste l’una dall’altra. Ciò avvenne nell’anno 427 di Roma, cioè anni 325 prima dell’era Cristiana, che fin ora (1894) sono anni 2219.

Delle tre città predette solo Alife esiste ancora, nel mentre che Callife e Rufrio fin d’allora sono sepolte sotto le proprie rovine, ed ora appena ne rimangono pochi vestigi in mezzo a terreni coltivati ed alberati come in seguito sarà detto.

Per tal modo ebbero principio le desolatrici guerre fra i Romani e i Sanniti, e questi or vincitori, or vinti di forze, no mai di valore e di coraggio, le sostennero interrottamente per circa cento anni, finché il truce spietato Silla li quasi annichilì nell’anno 663 di Roma facendo passare a fil di spada uomini, donne, vecchi e fanciulli, e le loro città dopo saccheggiate ed incendiate, furono quasi tutte distrutte dalle fondamenta.

 

[51]

§ 3°.

Condizione d’Alife durante le guerre puniche

 

Dopo tale scempio de’ Sanniti fatto da Silla, attesta Strabone che i pochi, che si salvarono, non furono più quelli di prima, e quindi così pure gli Alifani, che come popolo conquistato ne sopportavano tutte le triste conseguenze, le quali si resero peggiori, quando si accesero le crudeli ripetute guerre fra i Romani ed i Cartaginesi, che si dissero guerre puniche. Allora Alife e non poche altre città di questa nostra Regione, si trovavano nella tremenda condizione di un topo fra due gatti, perché il vincitore Annibale le occupava e tormentava per forza, mentre i Romani con Fabio Massimo dalle alture, aspettando con fremito miglior tempo, ne guardavano lo scempio. Partiti i Cartaginesi rientravano i Romani e le punivano della involontaria colpa della debolezza, cioè di non aver resistito ed aver ammessi i loro nemici. Per questa forzata colpa Alife fu considerata dai Romani come disertrice dal loro dominio, [52] e ne fu punita col farla Prefettura, ma Prefetture di quelle dove il Prefetto si mandava dal Pretore di Roma, il che era un severo castigo.

 

§ 4°.

Alife fatta Municipio - sua epoca gloriosa

 

 

Dopo tante sventure incominciò a comparire l’alba dei giorni meno tristi. Alife fu fatta Municipio e quindi Colonia Triumvirale e poi Augustale, e finalmente dopo la guerra sociale apparì per Alife e le sue consorelle il sole delle glorie e grandezze, che illuminò l’orizzonte per circa tre secoli, cioè ebbero la cittadinanza romana.

Durante tale epoca Alife risorse a novella vita e vi furono Decurioni, Duumviri, Questori, Censori, Patroni, in breve, tutti i Magistrati, Tempî, Sacerdoti, ed Indovini, come erano in Roma. Allora si arricchì di Teatro, Anfiteatro, Terme, Crittoportici, Fontane e si ebbe il Calendario Civile come Roma. Allora fu attraversata dalla via Latina da porta di Roma a porta Beneventana, vi si celebravano i giuochi e le feste di Roma, fu lussuosamente abbellita non solo [53] dalle cennate opere pubbliche, ma eziandio da superbi edifizî privati nell’interno e di splendide ville nei contorni. E da ciò apparisce la ragione ancora, secondo il Trutta, perché Alife fu più frequentata ed anche abitata da nobili Romani. Allora un Fabio Massimo Patrono discendente dall’altro Fabio Massimo Console le rifece le mura, le restaurò le Terme ed il tempio di Ercole. Allora la popolazione si aumentò tanto che lo spazio racchiuso nelle mura non era più sufficiente a contenerla, e si formarono, anche secondo il Trutta, due grandi Borghi, uno alla porta Romana e l’altro alla Beneventana, ma di tutte le cennate opere e grandezze ora che ne resta? Lo dirò in segito.

 

§ 5°.

Decadenza d’Alife

 

Su questo mondo tutto deve descrivere la parabola del principio, aumento e fine, secondo i periodi di tempo assegnati dalla Divina Sapienza, ed Alife con le altre città Sannitiche l’avevano percorsa, come Roma, la cui mondiale potenza repubblicana fu avvelenata dalle [54] discordie intestine, originate dall’ambizione di personale dominio,che si contrastarono Silla e Mario, Cesare e Pompeo, ed altri prima e dopo. Vi furono fino a cinque imperatori contemporaneamente. I secoli della Repubblica altro non furono che una rapidissima seguela di vittorie. Con gli Imperatori Roma mutò: pochi anni d’Impero abbuiarono sette secoli di glorie; sicché Roma si ammalò, febbricitò, tremò, barcollò, e non cadde, ma precipitò colla divisione nei due Imperi di Oriente ed Occidente. Dopo tal divisione l’imperatore di Oriente che presedeva in Bisanzio (Costantinopoli) dei quali fu l’eunuco Narsete, il quale essendo stato villanamente richiamato dall’Imperatrice in Costantinopoli a filare la lana con le donne, da quel fiero capitano ed uomo accortissimo, che era, rispose, alla Imperatrice Sofia che gli aveva diretto tale sarcasmo: « Io vi filerò tale una matassa che né voi, né l’imbecille vostro marito saprà distrigare ». E quindi esso lasciò Roma, licenziò le milizie e chiamò i Goti, che subito vennero a danno di Roma e delle altre città e paesi d’Italia nell’anno 259. Dopo tali [55] barbari ne vennero altri, cioè i Visigoti, i Vandali, i Bulgari, i Longobardi, i Saraceni, i Normanni, non esclusi i Greci, i quali gli uni dopo gli altri chi più e chi meno, per periodi di tempo diverso, tiranneggiarono l’infelice ammiserita Italia, per 258 anni contrastandosela come granello di frumento fra i polli, ciascuno per divorarselo[1]. In tale stato di effervescenza e di orgasmo ebbe origine l’Idra tremenda del Baronaggio, e quindi Imperatori e Re, Re e Baroni, Baroni e Baroni, Baroni con sudditi nel mentre tutti rodevano il freno della dipendenza, tutti volevano essere liberi, erano poi tutti schiavi dominati dai rispettivi interessi, capricci dalle vendette nonché dal sitibondo orgoglio che ne era il principale movente. Non vi erano leggi né tribunali, tutto si risolveva per mezzo della forza maggiore, e perciò continue guerre e rappresaglie tormentavano spesso dominanti e dominati.

[56] In tale infausta epoca, che fu quella dei Normanni nel XI secolo, quasi non vi fu paese, grande o piccolo, che non ebbe il proprio Signorotto, e ciascuno si fabbricò il proprio Castello spesso covili di orgoglio e di nefandezze, quali castelli ora si veggono tutti in rovina e disabitati. Questi castelli e Signorotti, Baroni e Conti, ordinariamente se li costruivano come si veggono, su dirupi e luoghi quasi inaccessibili, non solo per potervisi ricoverare e difendersi dalle aggressioni dei loro colleghi, ma anche per poter ivi mettere in sicuro il frutto delle loro rapine e rappresaglie, giacché quali uccelli di rapina vi si appollaiavano per guardare come e quando potessero gittarsi giù sulla preda, che appena fatta andavano a nascondere in quei tenebrosi covili. Da quivi alle volte ne uscivano seguiti dai loro bravi ad aggredire e predare i viandanti.

Tempi terribili e paurosi per tutti furon questi, imperciocché la forza era dritto e la tirannide, gli eccidii, i saccheggi, gl’incendi erano eroismo che trionfava e si faceva sgabello della debolezza. Ed anche Alife in tale trambusto sociale ebbe a soffrire altre sventure, oltre [57] le già patite. Tutto lo spazio racchiuso nelle sue mura, non era più gremito di abitazioni e di abitanti; tutto era rovinato e sepolto sotto le macerie, che furono ridotte in coltivati campi ed orti dai pochi superstiti Alifani, i quali non seppero distaccarsi dal patrio suolo, ed ivi si formarono i pochi e squallidi abituri fra quelle rovine lungo le strade principali. Quindi d’allora in poi gli abitanti seguitarono ad aumentare finché nel 1611 vi esistevano 56 fuochi, secondo il Ciarlanti.

 

§ 6°.

Gli Antichi edificii d’Alife dei quali ne restano ancora avanzi

 

Alife fu murata fin dai primi tempi della sua esistenza secondo il Trutta ed altri, i quali dicono che tali mura furono abbattute da terremoto, e con i rottami e materiale di esse il predetto Fabio Massimo costruì le mura che ancora esistono, restringendo però lo spazio racchiuso dalle antiche. Tali mura credo di essere state di forma quadrata, e nella [58] ricostruzione ridotte all’attuale parallelogrammo, e con tale restringimento dovettero restar fuori dell’attuale recinto diverse opere, come il Foro nel cui mezzo doveva essere la grandiosa Fontana di cui fa cenno il Trutta, nonché l’Anfiteatro ed il Circo[2].

Le mura esistenti che per tanti secoli hanno sfidata l’edacità del tempo, quantunque logore e mal ridotte ispirano a chi le mira il sentimento delle passate grandezze e della caducità delle umane cose.

In queste vi esistevano, come vi sono adesso, quattro porte che guardavano i quattro punti cardinali, alle quali mettevano e mettono capo le due vie principali che s’intersecano ad angoli retti nel centro della Città e la dividono come attualmente in quartieri simmetrici. Nell’angolo poi della Città che guarda l’Oriente vi esisteva, come tuttora, un bel forte Castello con i suoi fossi e terrapieni e strade coverte. Fortezza di molto valore nei tempi [59] che l’artiglieria non ancora esisteva. Però tal Castello esiste tutto rovinato fin dal tempo in cui quel Conte d’Alife e suo cognato Conte di Montori, nipote di Paolo IV furono decapitati in Roma nel 1561 a tempo di Pio VI secondo scrive Alessandro Abate da S. Salvatore Telesino. Scrive pure esso Abate che il Re Ruggiero restò ammirato e compiaciuto d’Alife e sue campagne.

L’altro grandioso edifizio erano le Terme, che esistevano non già in Città, ma su dell’aprica collina, ora detta Torelle, vicino San Potito. Tali Terme consistevano in un vasto recinto di mura di figura parallelogrammo, dentro del quale vi esisteva artisticamente e distintamente situato in punti diversi quanto di lusso, di voluttuoso e di comodità seppe riunire la magnificenza romana di quei tempi cioè basiliche e sale per le dispute dei filosofi, dei retori e dei poeti; grandi Lacini per esercitarsi la gioventù al nuoto; palestre per addentrarsi al pugilato, alla lotta, al giuoco del disco, alla corsa, viali lunghi ed ombreggiati per comodo del passeggio ecc. L’acqua che andava a tali Terme, era quella che ora è addetta per le [60] fontane, per il molino di detto paese, e per l’inaffiamento delle circostanti terre ed orti. Tale acqua sorgeva poco sopra il quartiere di S. Potito detto Formose dalle forme o acquedotti che vi passavano e portavano l’acqua sulla collina ad arricchire voluttuosamente le Terme, nelle quali si andava d’Alife per comodissima strada appositamente costruita. Tale edifizio, rovinato da forte terremoto, fu poi restaurato dal ridetto Fabio Massimo. Ma poi avendo l’Imperatore Adriano ordinato che nelle Terme non si fosse più permesso il bagnarsi insieme uomini e donne, il che non piacque agli scostumati, incominciò a trascurarsene il costume. L’Imperatore Costantino tolse la pompa dei giuochi Circensi e degli altri spettacoli nell’anno 410 di G. C., allorché Roma fu presa dai Goti. Poi l’Imperatore Giustiniano ordinò nel 321 che le Terme si fossero chiuse e del tutto proibite, e così se ne originò la completa rovina in Alife, come in ogni altro luogo ove esistevano, ed ora di sì grandioso edificio non ne restano che i ruderi e le rovine ben descritte dal Trutta che io personalmente e diligentemente visitai nella mia gioventù. Però forma [61] meraviglia che di un edifizio abbandonato da circa quattordici secoli ancora ne restano vestigi bastevoli a dimostrare la sua antica magnificenza.

Delle descritte due opere, cioè della ricostruzione delle mura e della restaurazione delle Terme attribuite al ridetto Fabio, se ne ha documento nelle due seguenti iscrizioni lapidarie riportate dal Muratori, nonché dal Ciarlante e dal Trutta.

 

FABIO MAXIMO V. C.

CONDITORI MOENIVM

VINDICI OMNIVM PECCATORVM

ORDO-ET POPVLUS ALIFANORVM

PATRONO

FABIVS-MAXIMVS-RECTOR

PROVINCIÆ TERMAS

HERCVLIS VI TERREMOTVS

EVERSAS A FVNDAMENTIS

RESTITVIT

 

[62] Taluni per quelle iniziali V. C. interpretarono Fabio Massimo quinto Console, ma no: quel V. C. dice Viro Clarissimo, che non ha che fare col Fabio Massimo, il quale fu cinque volte Console, e del quale fu lontano discendente il Fabio, di cui parlano le due suddette iscrizioni dagli Alifani fattegli per eternare la loro gratitudine a tanto benefattore. Dagli antichi storici son riportate magnifiche opere, a nobili famiglie patrizie, nobili genti, ed illustri personaggi che furono in Alife; ma gli originali di tali iscrizioni dove sono? La maggior parte furono distrutti interamente dall’ignoranza e barbarie e ridotti a materiale di fabbrica, altri fratturati e resi indiscernibili, ed altre trasportate altrove ed impiegate per scalini ed arcotravi di porti, come in Piedimonte ve ne sono diversi.

Oltre delle iscrizioni è riportato dal Trutta un grosso frammento dell’antico Calendario scolpito in marmo, ed un altro frammento è stato scavato da poco in Alife e trovasi depositato nel Museo di antichità in Capua.

[63] Quanto a tutte le altre citate opere che esistevano ai tempi della magnificenza d’Alife, appena di qualcuna ve ne resta qualche incerto vestigio: la voracità del tempo e la barbarie degli uomini le ha distrutte.

 

§ 7.

Alife divenuta Contea

 

Avendo nell’anno 476 di G. C.[3] Odoacre Re degli Eruli vinto in campo Oreste Patrizio lo fece morire; ed essendo entrato in Roma a 28 Agosto nello stesso anno costrinse Romolo Augustolo, figlio di quello, a rinunziare l’impero, con rilegarlo nel Castello Luculliano fra Napoli e Pozzuoli. Così finirono in esso gli Imperatori Romani d’Occidente e l’Italia fu [64] dominata dai Goti e poi dal Longobardi quali morto Clefe, successore di Alboino loro Re, elessero trenta dei loro a Duchi di quanto avevano conquistato. Benevento fu uno di questi Ducati ed in questo era compresa Alife che da’ Longobardi, Duchi di Benevento, fu eretta in Contea insieme con altre trentatre Contee, le quali formavano il vasto Tenimento del dominio Beneventano a’ tempi di Adelchi II che se ne intitolò Principe.

I Conti non furono altro a principio che Governatori per alcun tempo o a vita delle Città più cospicue coll’assistenza del Giudice per renderne ragione: ma dopoché nel 850 di G. C. l’Imperatore Lodovico diviso il [65] Principato di Benevento, dandone la metà a Siconulfo fatto Principe di Salerno, cominciarono essi Conti ad alzare la cresta ed a fare da indipendenti ed assoluti dominanti. Tra gli altri, i Conti di Alife (che furono Rainulfo I, Salittino suo fratello, indi Rainulfo II, figlio di questo, appresso Roberto nipote, e finalmente Rainulfo III pronipote di esso, il quale cominciò a regnarvi dall’anno 1106 che fu quello della morte di Roberto suo padre) massimamente dopo che questo Contado capitò in mano dei Normanni, a poco a poco ne scossero completamente ogni giogo dominandolo per circa cento anni e giunsero a darsi il titolo di Serenissima Potestà sui loro diplomi, come fecero il Conte Roberto ed il Conte Rainulfo III che però guerreggiava col Re Ruggiero suo cognato, il quale lo vinse[4] ed espugnò Alife ove era la sua Reggia che passò così nel dominio Reale. Alife fu governata fino alla minore età dell’Imperatore Federico II da Regi Ministri, dei quali alcuni, abusandosi di tal ufficio, se ne  impossessarono come patroni senza esserne stati investiti dal Sovrano quale si fu prima Marnaldo e quindi Diopoldo Alemanno, che morì nel [66] 1205 la teneva a nome di lui. Fatto maggiore Federico e ritolte Alife, Caiazzo ed Acerra al Conte Diopoldo, in cambio di ritenerle nel suo reale dominio, le concesse a Pietro d’Aquino, il quale ricevutele in Feudo s’intitolà Conte di Acerra Caiazzo ed Alife.

Dopo di Pietro d’Aquino, circa l’anno 1307, Carlo III creò Conte d’Alife il suo Ciambellano e Consigliere Tommaso secondogenito di Goffredo. Dopo Tommaso Alife fu posseduta unita a Marigliano e Pomigliano da Giovanni Oreglia quintogenito di Gorello.

Nel 1404 era posseduta da Giannotta Stendardo a cui successe Giovannella sua figlia, che la portò in dote a Marino Raffa suo marito, gran Cancelliere.

Fu presa poi unitamente a Piedimonte nel 1437 dal Patriarca, che fu poi Cardinale in occasione della guerra accesasi dopo la morte della Regina Giovanna per la successione al Regno.

Essendosi ribellato nel 1463 Marino Mazza, Duca di Sessa contro il Re Ferdinando per ragione di suo cognato Marco della Ratta, fu parimenti dichiarato ribelle anche egli e [67] spogliato dello stato d’Alife, Dragoni, S. Angelo, Raviscanina, Pietraroscia, (Pietraroia attuale) Chiusano, (ora Cusano) Crispano, Torre di Francolisi, Mignano, le quali furono tutte concedute ad Onorato Gaetani, a cui il Re diede anche il titolo di conte d’Alife.

Tra quelli che condusse il Re Alfonso in Italia, uno dei suoi più fautori fu Pasquale Diazcarlon, il quale perciò, in premio dei suoi servigi, fu da lui raccomandato anche a suo figlio Ferdinando cui seguitò a servire fedelmente. Nel 1482 esso Diazcarlon acquistò il Contado d’Alife, S. Angelo, Raviscanina, Dragoni e cinque altre terre, che gli furono vendute non già donate dal Re.

Antonio figlio del predetto Pasquale tanto benemerito del Re, per far creare Cardinale Antonio Sanseverino suo parente a tempo di Clemente VII rovinò la sua casa. Venuto a morte nel 1547, il suo primogenito Ferrante restò erede dei grandissimi debiti. Non avendo poi questi potuto soddisfare a tali debiti, nel 1558 ad istanza dei creditori fu dalla Regia Camera esposta in vendita la sua Città di Alife, la quale rimase a Cornelia Piccolomini Contes- [68] sa d’Alife, sua moglie, come la più offerente a cui i creditori, avendo avuto nuove cautele dei loro crediti, cedettero tutte le ragioni, che vi vantavano.

Ma seguendo esso Ferrante D. Giovanni Carrafa suo cognato, Duca di Palliano e Conte di Montori, nipote del Papa Paolo IV fu insieme con lui decollato in Roma nel 1561 a tempo di Paolo IV come già si è cennato parlando del Castello di Alife. Per la morte di costui non potendo o non volendo la detta Cornelia soddisfare i creditori, Alife fu venduta di nuovo nel 1561 e restò a Violanta delle Castella per Ducati 21,5500. Nel 1584, essendo morta costei ne fu investito Fabio Barone suo figlio e poi Giulio suo fratello, che la vendè a D. Francesco Gaetani Duca di Laurenzana e Signore di Piedimonte, i cui discendenti sono ancora investiti del titolo di Conti di Alife.

 

§ 8°.

Espugnazioni di Alife

 

Alife fu Teatro delle seguenti espugnazioni.

[69]

I.

La prima fu quella fatta dai Romani nel 427 di Roma, che la presero contemporaneamente con Callife e Rufrio, delle quali si è già parlato.

 

II.

Fu espugnata di nuovo nel 444 di Roma dal Console Romano C. Marzio Rutilio.

 

III.

Due anni appresso fu espugnata dall’altro Console Fabio Massimo Tullione.

 

IV.

Lo stesso Fabio la espugnò anche nell’anno 462 di Roma.

 

V.

Nella seconda guerra Punica fu espugnata da Annibale, il quale fu per ben cinque volte in Alife e sue vicinanze.

[70]

VI.

Nella desolatrice guerra dello spietato truce Silla, fatta circa l’anno di Roma 670, dopo la guerra sociale, della quale si è già fatta parola.

 

VII.

Ma la più disumana di tutte fu quella fatta dai Saraceni venuti dai deserti dell’Africa nell’anno 863 di G. C., che lasciarono la desolazione nei paesi, pe’ quali passarono, saccheggiandoli, ed uccidendone senza pietà gli abitanti, senza distinzione. Rilevasi dalla Cronaca Cassinese che tale canaglia, oltre di aver distrutto tutto il grandioso e ricchissimo Monastero di S. Vincenzo a Volturno, ne uccisero non meno che cinquecento Monaci e coloni ed altri quattrocento li presero prigionieri, il che fu nell’anno 879 di G. C.. Il Baronio però nei suoi annali mette tal distruzione nel 882 e dice che 900 Monaci furono decollati.

[71] Questo forse sembrerà esagerato a chi lo legge, ma non a me che nel 1852 fui per una perizia giudiziaria proprio ove esisteva il detto Monastero, e ne osservai gli scarsi imponenti ruderi, e specialmente quelli della Chiesa, i cui fusti di colonne di marmo cipollazzo di un pezzo, ciascuno della lunghezza di palmi 21, erano giacenti in quelle grandiose macerie. Tali fusti mi fecero maggiore impressione, prima perché quella qualità di marmi, negli antichi tempi, non potevano aversi che dall’Egitto; secondo per la difficoltà di trasportarli per dirupate vie su quella montagna.

 

VIII.

Rainulfo III erasi pacificato col Re Ruggiero, col quale era stato in guerra, con la condizione di dovergli prestare omaggio come vassallo. Ruggiero si ammalò in Sicilia e si sparse la voce che era morto, ma invece ritornò in Napoli di buona salute, e Rainulfo mancò all’omaggio giurato. Ciò si ritenne come ribellione, ed Alife fu nel 1135 un’altra volta espugnata, e data alle fiamme.

 

[72]

IX

Tornato però Alife in breve alla divozione del suo legittimo Signore Rainulfo, venne anche di breve occupata a forza da Ruggiero che nel 1137 dopo ricuperata Palermo, senza perdere tempo prese Nocera e quindi Alife e tutte le terre proprie di Rainulfo, il quale da poco era stato eletto dall’Imperatore e dal Pontefice Duca di Puglia. Non atterrito da tale occupazione Rainulfo se ne andò in Puglia con le sue genti ad assaltare Ruggiero e lo ruppe e sconfisse riportandone piena vittoria. Ma il Re si salvò a Padula coll’aiuto di un buon cavallo e di sproni, indi passò a Salerno e quindi in Sicilia. Rimase Rainulfo a sottomettere Troja ed Ariano e dopo assediato infruttuosamente il Castello di Padula, passò ad Alife e se ne rese padrone di buono accordo nell’anno 1138 memorando ed infausto, perché nella primavera tornò da Sicilia il Re Ruggiero e sebbene gli fosse venuto incontro Rainulfo con forte armata per sconfiggerlo di nuovo, ciò non pertanto egli [73] non volle avventurarsi in un novello conflitto ed accortamente schivando gl’incontri, piombò sopra Alife e la prese.

 

X.

Prima il sacco, dice il Muratori, e poi le fiamme terminarono l’eccidio di così bella e ricca Città.

E qual cosa poteva attendersi di meglio quell’esercito di ladroni, galeotti, e Saraceni, che Ruggiero menava seco? Come da tale canaglia poteva perdonarsi alle cose più sacre? Usando i più crudeli supplizi contro le persone di ogni età sesso e condizione, le costrinsero a dare quanto avevano di più prezioso, come rilevasi da Guidobaldo Abate Cassinese.

 

XI.

Ma già siamo giunti ai tempi delle scandalosissime gare e discordie fra gl’Imperatori ed i Pontefici quando nel breve corso di pochi anni fu Alife per ben tre volte presa dai Generali della Chiesa, per lo più a forza d’armi, con distruzione e saccheggi.

[74] La prima volta fu presa dal Conte di Celano (nella minore età di Federico II) che la tolse a Diopoldo ladrone Alemanno e successore dell’empio Mercovaldo che nel 1205 per sorpresa se ne era fatto Conte; ma nel mentre se ne stava combattendo virilmente il Castello che per Diopoldo ancor si teneva, nel sentire la prigionia e poi la morte di Gualtieri Conte di Brenna suo collegato, vedendosi chiamato nel Regno da Innocenzo III, e considerando di non poter dopo ciò più sostenere Alife, l’abbandonò sì, ma dopo averla prima incendiata, acciò se non a lui, nemmeno al suo nemico servisse.

 

XII.

Ed eccola di nuovo conquistata a forza di armi da Giovanni di Brenna Re di Gerusalemme, generale dell’esercito del Papa Gregorio IX che nel 1220 la ritolse all’Imperatore Federico II il quale di già fatto maggiore d’età l’aveva tolta nel 1221 a Diopoldo quasi per prezzo della libertà che gli diede col farlo uscire di prigione, in cui da ben due anni l’aveva tenuto ristretto.

 

[75]

XIII.

Eccola ancora la terza volta pur presa dalle truppe della Chiesa, tormentata dal Cardinale Pelagio che la tolse a viva forza a Pietro d’Aquino Conte di Acerra a cui l’aveva l’Imperatore medesimo conceduta, dopo di averla ricuperata nel ritorno che esso fece dalla conquista di Terra Santa. Però nel numero delle espugnazioni no va compreso il riacquisto, che ne fecero le imperiali squadre, mentre Federico trattenevasi nel Monastero di San Maria della Ferrara dopo l’espugnazione di Calvi.

Ella è impossibile cosa narrare a quanti mali in quei miseri tempi soggiacque il nostro paese, quando pretendendo il Papa Gregorio che Federico fosse decaduto dall’imperiale e reale dignità per la scomunica in cui era incorso, ogni sforzo faceva per annientare con gli eserciti suoi, e con le sue censure coloro, che l’ubbidivano; e Federico stimando di servirsi contro il Papa del dritto di rappresaglia, malmenava le persone di Chiesa come cosa appartenente alla parte del suo nemico, ed incru- [76] deliva contro di loro in modo, che dopo averli spogliati di ogni avere li riduceva al verde, o a morire miseramente in esilio.

 

XIV.

Ma qual danno non sentirono queste nostre belle contrade, allorché il Patriarca Vitelleschi ci venne con tute le forze della Chiesa, spintovi dal Papa Eugenio IV a richiesta della Regina Isabella nel 1437 e s’impadronì con mano armata di Alife, Piedimonte ecc.? La mente stupisce in considerare le umane vicende. Una città, che a tempo di Rainulfo poco mancò che non fosse metropoli del nostro Regno; una città così florida, nobile e ricca finalmente dové vendersi all’incanto come si è detto.

 

§ 9°.

Stato attuale di Alife.

 

Dopo tante calamità Alife restò ancora vivente, ma come l’ammalato che dopo fiera malattia passa allo stato di lunga e stentata convalescenza. A poco a poco cresceva la [77] popolazione, e sulle antiche e rovinate abitazioni s’innalzavano e crescevano le nuove, ma si viveva senza curarsi della pubblica igiene, e perciò Alife era ritenuta di aria cattiva, ma no, Alife non è stata mai di aria cattiva ne’ tempi che precedettero le sue sventure, altrimenti dagli antichi non si sarebbe portata a tanta grandezza. Se si fece di aria, fu da che gli abitanti incominciarono ad aumentare di nuovo, e con essi incominciò ad aumentare la quantità di bestiame tenuto tutto in paese, chiuso nelle stalle, che non si curava di pulire a tempo. Il letame poi che se ne estraeva spesso si teneva ammonticchiato avanti alle stalle, e non di rado nelle pubbliche vie e vichi ove fermentava. Donde avveniva che quando pioveva la fermentazione cresceva e l’acqua piovana dopo saturata delle materie putride contenute nel letame, scorreva per le vie. Siccome poi le vie non avevano per tutto un regolare declivio, così quell’acqua spesso formava dei piccoli gorghi, ove ristagnando esalava miasmi e vapori letali, che uniti a quelli, che uscivano dalla fermentazione di mucchi e delle stalle, cagionavano una specie di caligine o nebbia che [78] si vedeva la mattina in Alife e la fece ritenere di cattiva aria, come di fatti così si rendeva per la espressa circostanza. Ma pel sito poi Alife ha sempre goduto e gode di una favorevolissima esposizione solare, ed è sempre dominata da una continua agitazione di venti specialmente settentrionali.

Allora la salute dei cittadini risentiva gli effetti della loro trascuraggine, e pure si tolleravano senza mettervi riparo positivo. Ma finalmente si scossero, e quel Municipio pensò ripararvi alla meglio col far procedere ad una proposta artistica di bonificazione, ed incaricò me all’oggetto con Officio del 10 Febbraio 1847, n. 27. La proposta fu fatta e quindi eseguito nel miglior modo possibile. Tanto nelle vie principali, quanto nei vichi fu regolarizzato il declivio e spianato in modo, che le acque piovane vi scorrevano regolarmente, senza lasciare depositi o sedimenti di materie impure, come quelle del letame ed altro. Così si fece il primo passo nel miglioramento. I cittadini fatto senno tolsero o almeno diminuirono l’inconveniente a loro letale. In seguito le strade si sono fatte lastricate, le piazze [79] si sono adornate di fontane, delle quali tre decorate molto belle, e le altre di semplice comodo.

Ora vi sono due casine, un palazzo Municipale stupendo, ed un edifizio scolastico che, secondo mi scrive il mio amico Avvocato Signor Salvatore Cornelio, dopo quello di S. Maria Capua Vetere sarà il secondo nella Provincia. In generale i fabbricati dei privati si sono aumentati, prendendo più civile fisionomia. La Cattedrale è stata abbellita di geniosi stucchi. L’Alife attuale non è più quella di quaranta anni dietro, ed i cittadini respirano un’aria molto migliorata, anzi salubre, ed il loro numero nell’ultimo censimento del 1891 è giunto a 3847.

Nell’elaborare la detta proposta di bonificazione, volli misurare anche il parallelogramma formato dalle mura in cui esiste racchiusa la Città; mura già logore più o meno in taluni punti, ed anche crollate in qualche parte, ma che ciò non ostante fanno la figura di vecchia e gloriosa bandiera ed ispirano venerazione e rispetto.

[80] Il parallelogrammo rettangolo dunque lo trovai di palmi 2128 di lunghezza e 1568 di larghezza, che corrisponde alla superficie quadrata di circa tomoli locali 72 ½  ragguagliate a circa moggia 69 napoletane.

di tale estensione circa un terzo è occupato da fabbricati, cortili ed aie e gli altri due terzi sono occupati da orti e terreni coltivati. Però tutto lo spazio racchiuso nelle mura è diviso, come nei tempi antichi, da due vie maestre, che l’intersecano quasi nel centro della città, e la ripartiscono in quattro quartieri che sono chiamati Castello, Vescovado, S. Pietro, S. Francesco. Le due vie maestre che non conservano più il rettifilo antico, hanno, come sempre hanno avuto, l’ingresso mercè le quattro antiche porte dette attualmente Porta di Roma, di Napoli, di Piedimonte e di Fiume.

Finalmente la Direzione Governativa intitolata Antichità e scavi, della quale esiste una Direzione Provinciale in Capua, mandò pochi anni or sono una commissione in Alife per studiare le mura ed il Castello e riconobbero così l’uno come le altre essere opere di costruzione romana. Per le mura dissero che per po- [81] terle restaurare vi necessitava ingente spesa, superiore a quella che il Governo aveva messa a disposizione del Comitato, e così fu deliberato conservarsi solo due torri le meno devastate ed abbandonare il resto; e perciò furono risarcite alcune brecce di due torri, e le cerchiarono di ferro a guisa di botti, come già si vedono. E questa è l’Alife attuale. Quantunque decaduta dalle antiche grandezze, essa porterà sempre associata con sé la memoria dei suoi fasti e delle sue sventure, che la farà rispettabile e simpatica ai suoi cittadini non solo, ma a chiunque ne conosce la storia.

 

[82]

§ 11°.

Di alcuni altri antichi edifizi di Alife tuttora esistenti[5]

 

CRITTOPORTICO

 

Alla parte orientale di Alife, e precisamente al quarto Castello, poco lungi dalle 4 Torri, trovasi un magnifico Crittoportico ben conservato, che può liberamente girarsi, meno nei mesi invernali per causa dell’acqua che vi scaturisce. Esso è a forma di parallelogrammo rettangolare, senza però il lato a mezzogiorno. È a doppio corridoio a volta, l’uno parallelo all’altro, largo ciascuno metri 3,17 e comunicano tra loro per mezzo di 30 archi, [83] larghi metri 1,23 ad alcuni di detti archi corrisponde una finestretta quadrata al N° di 21 da dove i corridoi ricevevano la luce. Il muro di mezzo o di separazione tra l’uno e l’atro corridoio, precisamente dove sono costruiti gli archi, misura lo spessore di metri 1,06.

Ciascun braccio laterale è lungo metri 28,78 e quello di mezzo è metri 43, 65 che nel totale formano la lunghezza di metri 101,21. Il pavimento, secondo le osservazioni fatte, è di semplice terra battuta. Il Crittoportico, come  risaputo, serviva di passeggio nei mesi estivi per isfuggire gli eccessivi calori del giorno. Nel secolo passato fu ad osservarlo il Cardinale Cantelmo, in una al Duca Antonio Gaetani di Laurenzana, come tuttora tal nome si legge sull’incrostatura del muro, e nel secolo presente vi fu il Cardinal Ruffo, che ambedue furono Arcivescovi di Napoli. In tutto il territorio allora d’Alife si osservano altri sei Crittoportici, dei quali ne parla diffusamente il Trutta.

Accosto al detto Crittoportico è da credersi che vi fosse edificato un sontuoso palagio, sia per avervi trovato dei bellissimi pavimenti [84] alla mosaico, sia per la vicinanza del Crittoportico. Nel mezzo al Crittoportico vi dovevano essere delle belle fontane, come lo attesta un grosso tubo di piombo ivi trovato, su cui li seggono le segueni sillabe: RO.MU.LI[6]; che al dire dell’illustre tedesco Mommsen, possono leggersi in una sola parola Romuli. Presso all’istesso Crittoportico si è trovata una bella testa di marmo, che dalle fattezze può inferirsi essere di qualche personaggio romano. Sotto ad un pavimento mosaico di diversi colori, che fu in parte rotto, si rinvenne un piede di vitello di marmo bianco finissimo, avanzo forse della Statua del vitello, che doveva adorarsi al tempo del gentilesimo. Si rinvennero pure poco lungi varie monete romane, tre vasi antichi di rame, che per far danaro furono venduti ai caldarari. Nell’interno di Alife vi sono altri non pochi sotterranei, ma non ancora esplorati.

[85]

NECROPOLI ALIFANA

 

A tramontana di Alife ad un chilometro e mezzo dalla città, in un piano lievemente inclinato, denominato Conca d’Oro, rinvennesi una zona di terreno tutta disseminata di tombe le une a lato delle altre. Il Sig. Egg allora padrone di quel podere, fece fare a sue spese degli scavi e ritrarre una pianta della necropoli, dalla quale risultò che le tombe trovavansi disposte con orientazione diversa in una profondità di 1,60 a 3 metri sotto il livello del suolo. Vi si rinvennero tombe costruite con lastre di tufo, tombe fatte a tegoloni e tombe scavate nel terreno. Nell’estremità orientale della Conca d’Oro si rinvennero pure delle Olle cinerarie di terracotta ed altri indizi di cremazione; ma questa parte della necropoli sembra appartenere ad una epoca più recente[7].

[86] In tali tombe fu trovata gran quantità di oggetti di antichità, cioè furono trovati:

  1. Residui di stucco dipinto rappresentanti figure umane ed animali feroci, come tigri, leoni ecc.
  2. Vasi di svariatissime forme, come anfore grandissime, crateri di varie grandezze con figure di donne, arabeschi e fogliami, con figure di animali ecc.. Svariatissime coppe a due anse con palmette nel fondo ed altri dipinti; molti vasetti ad un manico con qualche arabesco colorato; non manca finalmente il gutto in forma di otre, né il balsamario foggiato a testa muliebre. I vasi senza vernice erano generalmente di colore ora nerastro, ora rossastro ed ora misto; tra questi soli tre erano di bucchero. Non mancarono di piccoli vasi e ciotole di forme semplicissime. Si trovarono pure delle anfore vinarie, dei pesi da telaio, fusarole ed altri oggetti consimili.
  3. Fra la suppellettile di bronzo e di argento si rinvennero: Fibule di varie forme e grandezze, di cui alcune portavano infilato nell’estremità dell’ardiglione un cilindretto di pasta di vetro rosso o un pezzo di corallo; [87] Cinturoni; Armille ed Anelli; Utensili da toeletta, come pinzette, aghi crinali, ornamenti a spirale, un Colum ed uno specchio circolare con manico;
  4. Fra la suppellettile di ferro furono trovate moltissime fibule, armi ed utensili diversi.
  5. Fra quella di vetro vanno annoverati: balsamai, vaghi da collana, oriuoli ecc. ecc.

Le monte d’argento ritrovate furono 44, per la descrizione delle quali vedi il Dressel.

 

DUE SEPOLCRI TUTTORA ESISTENTI

 

Fuori la porta di Napoli, pochi passi distante dalla città verso Oriente, trovasi un grandioso sepolcro di forma rotonda del circuito di metri 37 e dell’altezza di circa metri 10 (che or trovasi trasformato in Chiesa e fornito di una finestra che prima non aveva), costruito su di un quadrato ad angoli retti e lati eguali della lunghezza di metri 13, e tutto formato di grandi macigni lavorati. All’altezza [88] di metri 2,70 è cinto da una cornice pure di pietra lavorata molto sporgente, e da questa cornice in su è tutto incrostato di pietre lavorate. L’entrata era dalla parte di dietro, come si vede tuttora, e nell’interno attorno attorno al muro vedonsi delle nicchie, dove gli antichi riponevano i loro estinti. Questo Mausoleo apparteneva alla nobile famiglia alifana Fabrione, come rilevasi dalla iscrizione che ivi si conserva, nella quale si fa menzione di tre Consoli di detta famiglia, i quali tennero i fasci negli anni 152, 186 e 210 avanti Gesù Cristo. Dalla provincia questo sepolcro o Mausoleo fu dichiarato monumento di antichità nazionale.

L’altro monumento sepolcrale, che pure merita di essere menzionato, è quello detto Torrione d’Alife circa un 2 chilometri dalla città, sito presso l’antica via Latina. Esso è anche di forma quasi rotonda, pure fondato su di un quadrato a lati uguali, lunghi ciascuno metri 13 e misura 10 metri di altezza. Da quello che ne avanza s’inferisce che tanto all’interno, quanto all’esterno doveva essere tutto incrostato di marmo. Si vuole che tale [89] superbo Mausoleo dovesse appartenere alla quasi regia famiglia Fadia alifana, e la cui costruzione sia costata la bella somma di 20 mila sesterzi.

 

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[1] Ho creduto bene narrare per esteso il fatto che cagionò la distruzione del Sannio fatta da Silla, nonché quella della infelice e misera fine della grandezza Romana sottomessa ai barbari affinché il lettore possa comprendere a quali imprevedute terribili conseguenze può menare la superbia, l’ambizione e l’orgoglio.

[2] Oltre della fontana che era nel Foro, vi è tradizione che dentro le mura attuali, vi esisteva altra lussuosa fontana ricca di abbellimenti di finissimi marmi i quali furono tolti da Re Ruggiero che se li trasportò in Sicilia.

[3] Quando e da chi fu predicata e propagata la Religione di Gesù Cristo in Alife, come in Telese, è cosa che si è perduta nell’oscurità dei secoli antichi: però si vuole che ciò sia avvenuto pressoché nei tempi Apostolici. Il primo vescovo di cui si ha storica conoscenza, è il Vescovo Claro, il quale fiorì verso la fine del quinto secolo e per Telese un tal Florenzio che governava quella chiesa nel 465; ma io opino che essendo state Alife e Telese sempre compagne nelle sventure e nelle glorie dovettero essere pressocché compagne e contemporanee nel ricever la luce Evangelica.

Nel 1818 Pio VII, con la sua Bolla munita di Regio Exequatur del 1 Agosto dello stesso anno, stabiliva le nuove circoscrizioni di tutte le Diocesi del Regno e con tale Bolla veniva soppressa la Cattedrale di Alife ed incorporata a quella di Telese.

Gli esecutori del Concordato nel mese di Agosto 1820 proposero la modifica della predetta Bolla e di fatti fu modificata con altra Bolla del 14 Dicembre del medesimo anno. Con tale modifica le due Chiese, Alifana e Telesina, furono fatte egualmente principali da governarsi però da un solo Vescovo e fu stabilito pure che negli atti generali riguardanti le due Diocesi dovesse precedere il titolo di alife a quello di Telese dicendosi Episcopus Aliphanus et Telesinus, ed il primo Vescovo ne fu Monsignor Puoti che ne prese il possesso nel 1826. Così continuarono le cose fino a Monsignor Di Giacomo, il quale domandò ed ottenne la separazione delle dette Diocesi, come sono tuttora, verso il 1852.

[4] Rainulfo III non fu vinto da Ruggiero, ma morì di febbre nella città di Troia mentre con Ruggiero guerreggiava, e morto che fu, i troiani aprirono le porte a Ruggiero il quale non volle entrare dicendo non volere entrare in una città di cui esisteva il cadavere del più fiero suo nemico e perciò ordinò che si fosse diseppellito il cadavere di Rainulfo e si fosse trascinato per le strade della città forzando a ciò eseguire uno dei più affezionati ufficiali dello stesso Rainulfo, il che indegnò lo stesso figlio di Ruggiero rimproverò il padre per la stolta crudeltà e così fu nuovamente sepolto il cadavere di quel sventurato eroe e con esso la potenza e storia di Alife.

[5] Siccome io ho inteso di scrivere un Riassunto Storico e non una Storia minutamente descrittiva, così non mi era dato carico di parlare minutamente di quanto qui è detto, contentandomi d’averne fatto un cenno, come anche dei ruderi del Teatro che esistevano vicino la Cattedrale, e precisamente ove si è fabbricata la nuova casa il farmacista Vessella, cenno che con mia sorpresa or trovo essere stato omesso dal copista del mio manoscritto; ma essendone stato poi richiesto da persone rispettabilissime nel mentre questo Riassunto Storico era in corso di stampa, ho aggiunto questo § nel quale non ho fatto altro che trascrivere letteralmente quanto mi si è scritto.

[6] Le sillabe RO.MU.LI potrebbero interpretarsi: Romana Munificentia Libertas, poiché nel periodo della libertà si fecero opere grandiose, oppure potrebbero essere la marca della fabbrica del fabbricante i tubi di piombo, giacché nei tempi antichi tutto era marcato.

[7] Chi desiderasse conoscere le diverse forme e fattezza di siffatte tombe potrà leggere gli Annali dell’Inst. di corrisp. archeol. del Dressel il quale ne fa una minuta descrizione.