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QUADERNI DI CULTURA DEL MUSEO ALIFANO

(n. 6)

 

 

 

 

 

DANTE MARROCCO

 

 

 

 

 

 

 

 

GLI   STATUTI   DI   TELESE

 

 

 

 

 

 

 

Piedimonte d'Alife

Tip. Alberto Grillo e Figli

1963

 


 

Una parola d'introduzione.

Il comune di Telese segue l'evoluzione giuridica di tutti gli altri Comuni del Regno di Napoli.

Il famoso municipio telesino, alla caduta dell'Impero, aveva mantenuto durante l'epoca longobarda, pur nel mutamento delle istituzioni, una posizione di centro amministrativo e religioso. E con tutta probabilità, essendo territorio regio, zona che, pur trovandosi topograficamente nel ducato di Benevento, ne era giuridicamente distinta, governato da un gastaldo, vide il manifestarsi di una rinnovata, timida autonomia locale di governo. Ciò era conseguenza inevitabile sia di essere un centro popoloso (fatto che ha sempre comportato una certa partecipazione al potere), sia per la lontananza della Corona, sia infine per la non grande preponderanza etnica longobarda, sul preesistente elemento sannitico - romano. Varie istituzioni di origine diversa convissero insieme, dando origine al nuovo diritto consuetudinario.

Con Federico II ricominciò la preponderanza dello Stato, del potere centrale sul periferico, e le autonomie locali si ridussero a quelle permesse dallo Stato, non furono certo il risorgere inarrestabile e ordinato di antichi diritti collettivi.

Per le Comunità sono riconoscibili stabilmente - parlo di quelle minori - proprio solo i diritti elementari di amministrazione, e non molto si mantiene in esse di leggi che esulino da tali possibilità.

È il caso degli Statuti di Telese che vogliamo esaminare.

 

***

 

Il testo di essi, originale, si conserva nel Museo Alifano di Piedimonte, cui fu donato dal prof. Raffaele Alfonso Ricciardi nel 1916. Fu pubblicato in quell'anno da lui su Archivio storico del Sannio Alifano, con una breve introduzione.

Il documento si compone di un manoscritto cartaceo di otto fogli, in scrittura corrente, fitta e frettolosa, ed è opera del notaio Antonello di Cerreto, nel 1426. L'originale è dunque una copia. Ne deriva che gli Statuti sono più antichi, non solo nella forma originaria in cui furono copiati, ma logicamente anche nel contenuto.

Non c'è copertina né frontespizio, e i fogli sono cuciti da striscette di pergamena. In una pagina in bianco c'è un'annotazione che ricorda un fatto estraneo al testo: è un accordo fra due signori feudali, Alfonso Gaetani ed Enrico della Leonessa, signori di parti della zona. È del 1457.

Ecco anzitutto l'elenco dei capitoli.

 

1.        De bucceriis (allevatori e commercianti di animali da carne).

2.        De molinariis.

3.        De tabernariis.

4.        De aquis et fontibus vero fundanibus.

5.        De ludo.

6.        De iniuriis.

7.        De immundiciis.

8.        De fovibus descopertis.

9.        De viis.

10.     De corbiseriis (commercianti di pelli).

11.     De accatatoribus coczuleti (ortolani che irrigano).

12.     De piscatoribus.

13.     De damnis ab hominibus factis.

14.     De quartuciis (misure).

15.     De damnis animalium.

16.     De damnis ignis.

17.     De herbis.

18.     De custodia terre.

19.     De damnis in demaniis.

20.     De alienigenis vendentibus in foro telesie.

21.     De opere promisso non servato.

22.     De corbiseriis.

23.     De panicoculis.

24.     De bucturariis.

25.     De ferrariis.

26.     De cusitoribus.

 

Vi si vedono solo attività economiche e di stretta polizia, disciplinate dalla disposizione di legge.

Questa disciplina è imposta da funzionari esterni, o è prodotto degli "Eletti" locali? Del gruppo dirigente che disciplina la produzione e il commercio? Sembra degli uni e degli altri. Vi troviamo scritto continuamente la frase "Statutum est" e per le multe "Licitum sit camerariis et bajulis", "solvat Curie civitatis", "homines civitatis telesie" e ciò manifesta una amministrazione collegiale, popolare. Vi è ugualmente attestata la potestà del "catapano" e degli "assectatores", e ciò mostra la presenza e il potere di autorità delegate.

 

***

 

Da un primo esame, semplicemente formale, appare l'incompletezza, la ristrettezza del documento. Sono in tutto 26 articoli. Raffrontandoli a quelli di Piedimonte e di Alife che ho già studiati, noto differenze vistose.

1.      Di fronte alle solenni introduzioni in perfetto latino degli Statuti alifani del 1503, qui trovo l'assenza completa di giustificazione generale della norma, e un latino per giunta che, se non fosse indubbiamente spontaneo nella sua rusticità, non esiterei a definire maccheronico.

2.      Di fronte all'estensione e alla varietà degli Statuti piedimontesi del 1481, - ben 85 articoli - che trattano di diritto matrimoniale e testamentario, qui, in quelli telesini, tutto si riduce a 26 ordinanze sui prezzi e sulle infrazioni, con conseguente tariffario di multe. Basta.

Manca perfino un primo articolo, riscontrato dovunque, sui bestemmiatori, col quale, in omaggio alla fede, si aprivano queste costituzioni, che pure avevano tanta importanza nella vita cittadina. È appena sostituita dalla parola "Jehsus".

Da principio ho visto nel documento un testo mutilo, ma siccome nel manoscritto non appare questa mutilazione, ho intravisto un'altra possibile soluzione. Il documento è una copia notarile. È possibile che il notaio Antonello di Cerreto abbia stilato questa copia degli Statuti per sé o per altri giuristi, trascrivendone quanto potesse praticamente interessare uno specializzato in determinate cause, tralasciando la parte generale.

Intervengono sempre bajuli e camerarii, amministratori ed esattori, qualche volta i catapani e gli assettatori, ossia compositori. Non ne risulta il numero degli Eletti, né tutto quanto riguarda la loro carica (durata, esenzione ed obbligatorietà, controllo, classe sociale, luogo della riunione, ecc.). Anche questo è una prova che o il documento è incompleto, o la redazione del 1426 rappresenta un rinnovamento solo di quanto si riteneva necessario adattare, lasciando intatto il resto.

 

***

 

Leggendo appare che la tassazione quasi sempre ha una duplice destinazione: va ai Bajuli ed ai Camerari. Colpisce subito il fatto che, in generale, la quota spettante ai Camerari è maggiore di quella destinata ai Bajuli. Perché?  Forse perché la parte dei Camerarii (Camerlenghi o Tesorieri) andava alla Camera feudale, e l'altra all'Amministrazione? Curioso il fatto che qualche tassa è riservata ai primi, qualche altra agli altri, e alcune sono egualmente distribuite.

Ecco un esempio:

De bucceriis.

Baj.

Cam.

 

Per mancanza di carne da macellare

tarì

3

 

 

Per mancata vendita di carne a tutti

agust

½

ag.

½

Per vendita di carni infette

 

 

ag.

½

Per vendita di carni a pezzi e non a rotoli         

tarì

2

ag.

1

Per vendita di carni a mezzo rotolo e a libbra

tarì

2

ag.

½

Per vendita di una carne per un'altra

 

 

ag.

½

Per vendita della stessa carne per più giorni

tarì

2

tarì

2

Per vendita di carne a Solopaca a minor prezzo

agust

½

 

 

Per contratti fatti abusivamente dai Bajuli        

 

 

 

puniz.

Per bilancia falsa

agust.

½

ag.

1

 

                                                                               

                                                                   

E che ci sia un'origine differente di potere delle due magistrature appare anche dalla facoltà dei Camerari di punire i Bajuli prevaricatori.

Non si può riportare facilmente le antiche tariffe ai prezzi moderni. L'Agustale era nel '400 una moneta non più reale, era una somma di monete reali, ed equivaleva ad un quarto dell'oncia d'oro. Il tarì e il grano erano invece circolanti.

Né agiscono nelle 21 discipline di attività elementari, norme di diritto tali da individuare un'origine germanica o romana delle norme. Tranne che per l'importanza tutta germanica del giuramento, neanche per questo ci si può rifare ad un'epoca determinata.

 

***

 

Ed ora un brevissimo esame linguistico del testo.

Il linguaggio è sempre caratteristico di un'epoca e di un ambiente, e anche per questo gli Statuti si rivelano senz'altro prodotto locale, soprattutto per la terminologia e la toponomastica.

Sono in un dialetto palese e schietto, pur nel suo rozzo rivestimento latino. Sintassi e grammatica spesso vi son fatte a pezzi. Le abbreviature, moltissime, oltre che essere indubbia manifestazione paleografica, tradiscono pura la copia frettolosa. Né si può parlare di stile in brevi ed aride frasi curiali. Pure, vi appare una uniformità di espressione e di costrutto che denota un'origine unica di formulazione, se non personale certo locale e di un'epoca. Interessano in questo esame filologico specialmente i vocaboli.

La scrittura della labiale forte B invece della debole ci da nella lettura, ad es., il tipico termine dialettale velancia; il gi italiano p reso con dji, e molto vive sono le metatesi dialettali, ad es. crapa per capra.

Termini latino - barbarici quasi irriconoscibili, sono molti. Nel mulino c'è il parasides; fra le misure è la metrata, e da essa deriva tutto un sistema di misure di capacità. C'è la mezza metrata, e il quartuccio. Ha la capacità di due coppe, e ogni coppa è di 41 oncie; la languena (oggi: langella) il grande orcio, è capace di 18 coppe. Insulti sono ficum e ceca; "coczuletum" = cucciulitu, è forse il canale; "corbiserius, cerdo" sono forse commercianti di pellami ecc.; "tartarius" è il pescatore di fiume con paranza, e "turfarius" il pescatore di anguille di fosso.

Tutte manifestazioni dell'origine locale e soprattutto popolare di questo regolamento municipale.

 

***

 

Un po' di topografia.

Siamo nel periodo di maggior decadenza di Telese, nel 1426. Ottant'anni prima, nel 1349, un terremoto di origine vulcanica, accompagnato da un'eruzione, aveva spaccato in modo repentino e pauroso il monte Pugliano, alle spalle di Telese. Si erano aperte delle voragini, e le acque del Matese, attraversando strati ferruginosi e soprattutto solforosi, sgorgavano ormai nel campo telesino da ben 29 sorgenti idrominerali e s'impaludavano. Le mofete rendevano l'aria irrespirabile, e fu così che l'antica e gloriosa Telese fu gettata in un'agonia senza rimedi. Ottant'anni dopo il cataclisma, la città era ormai una sopravvissuta. Il vescovo Brancia l'aveva lasciata per Cerreto. Quasi tutti gli abitanti l'avevano abbandonata. Ne restavano pochi, forse i più poveri.

Dagli Statuti appare alquanto di questa misera situazione. Da una chiesa di S. Pietro si raggiungeva la vicina porta, e dalla stessa il ponte, per altra via. Da S. Silvestro sulla prima via si raggiungeva S. Stefano su una terza strada. C'era pute un ospedale di S. Antonio. Traghettavano il fiume di Telese (il Calore) due scafe. Queste, e alcune vie a raggiera, univano la città - ombra ai suoi casali, e forse essi erano la sua vita.

Erano: Amorosi, S. Salvatore e Cave, Sorropaca (Solopaca) e S. Giovanni, Pugliano e Sala, Veneri (Castelvenere) e Rajeta (fra Guardia e Castelvenere).

Appaiono negli Statuti anche l'impaludamento del territorio ad opera del torrente Grassano, e i conseguenti sforzi per bonificarlo. Per portare l'acqua alla propria terra, guai a impedire il vallone "de novo factum", fatto da poco per convogliare le acque stagnanti. C'era pena anche per chi devastasse "stucchias de fosso", le piante messe a difesa dell'argine.

 

***

 

Uno sguardo ora ai rapporti di lavoro e all'economia della città decadente.

Legge del taglione. Chi non si presenta al lavoro dietro impegno preso, pagherà di multa il salario pattuito. Lo stesso vale per il datore di lavoro che non vuole più l'operaio: gli paghi la giornata. Tutto ciò naturalmente se non ci siano forti ragioni. Un freno ai proprietari di terre, laici ed ecclesiastici, è dato sempre da questo articolo importante, che proibisce i maltrattamenti, ma comporta da parte del sottoposto l'ammenda del danno causato.

Se l'articolo "De opere promisso..." non fosse rispettato dai Bajuli ( per abuso di potere o impegni elettorali?) ecco l'intervento dei Camerarii, più interessati alla esazione delle imposte riservate in questo articolo solo ai Bajuli, per dieci grani. Tutto previsto.

Premesso ciò esaminiamo sommariamente l'economia. Le varie attività, agricola, artigiana e commerciale, appaiono ancora importanti al punto che ben 19 del 26 articoli appartengono loro. Gli altri 7 disciplinano i servizi pubblici.

L'intervento della legge in questi 19 articoli appare proibitivo, negativo, di polizia. Cioè, riconoscendo uno stato di fatto, che essa non ha creato, e neanche incoraggiato, si limita a punire le trasgressioni, che vi sono minutamente elencate. Funzione dunque non attiva: la legge qui non spinge ma frena.

L'economia al solito è curtense, a vantaggio del centro rispetto ai casali, e a vantaggio dei "terrigeni" rispetto agli "alienigenae". Appare dai 19 articoli un'attività economica modestissima, di piccola produzione e piccolo commercio locale. Non c'è posto quasi per il lusso. Perciò questa legge è fatta per il popolo, cui interessava un prezzo minimo standardizzato, sul quale i commercianti assolutamente non dovevano giocare. Si guardi alla mercede dovuta ai sarti, ferrai e calzolai: c'è un prezzo fisso per il lavoro, e appena qualche variante se varia la qualità della materia prima. Ma questo senso di limite non deve passare per insufficienza o per gusto assurdo di sacrificare i produttori ai consumatori, ma solo come disciplina di infinite marachelle, di controllo a mezzucci per profittare, propri dei commercianti, e che appaiono minuziosamente scoperti ed elencati.

Terrigeni ed alienigeni producono e vendono gli stessi prodotti: cereali, carni, pesce del Calore e di fosso, vino ... Del resto non era possibile un commercio a largo raggio. La legge dunque commina un trattamento differente solo per l'origine differente, non per un prodotto diverso. Se sono paesani c'è una certa disciplina, se sono forestieri una maggiore restrizione.

 

***

 

 

Utile nel riflettere su questi statuti è stata la consultazione di:

Alianelli, Delle consuetudini e degli Statuti municipali delle provincie napoletane (Napoli 1873).

Faraglia, Il Comune nell'Italia meridionale.

Salvioli, Manuale di storia del diritto italiano.

Jannacchino, Telesia.

Mazzacane, Memorie storiche di Cerreto Sannita.

Mennone, Riassunto storico dell'antico Sannio.

Pacelli, Memoria storica di Telese.

Perrella, L'antica e la moderna Telese (in L'antico Sannio).

Rossi, Catalogo dei vescovi di Telese.

E i miei lavori:

Il monastero di S. Salvatore di Telese (1951).

Piedimonte (1961).

Modifiche statutarie in Alife durante il secolo XVI (1962).

Pergamene e manoscritti del Museo Alifano (1963).

 

***

 

Studiando gli Statuti di Telese, come già quelli di Alife e di Piedimonte, per amore della storia patria, ne ho visto affiorare, come da tutti i prodotti dell'uomo, aspetti diversi. Da una parte la miseria morale, l'egoismo, la bassa civiltà, l'impossibilità a rinunziare al controllo dall'alto, l'orizzonte ristretto, e dall'altra, con un po' di idealizzazione, ci ho visto il Comune rustico di carducciana memoria, lo sforzo a incivilirsi, a limitare il guadagno illecito, a immettere più decentemente l'individuo nella società dei suoi simili, impedendogli il male istintivo, prospettandogli il suo bene nel bene collettivo.

Conclusione più morale che storica.

 

DANTE MARROCCO

 

(Testo)

 

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