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QUADERNI DI CULTURA DEL MUSEO ALIFANO

(n. 13)

 

 

 

 

 

DANTE MARROCCO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GLI STATUTI
DI PIEDIMONTE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Napoli

Arti Grafiche Ariello

1964

 


INTRODUZIONE

 

La storia del diritto italiano mostra, attraverso le leggi, la presenza dei popoli che hanno abitato l’Italia.

Il diritto longobardo, sempre più ristretto nell’Italia già annessa all’Impero carolingio, restò a lungo valido nel Ducato di Benevento, e nei tre principati che ne derivarono, vigendo praticamente per secoli in piccoli nuclei umani spesso isolati nella ubicazione, i quali, o perché fondati da Longobardi, o perché ripopolati da essi, lo conservavano per una consuetudine ormai radicata nel popolo. Era lo stesso processo per cui era passato il diritto romano. Intanto colla progressiva fusione etnica molte norme giuridiche s’erano accostate, e fra i due sistemi c’era stata una reciproca penetrazione.

In generale gli storici del diritto asseriscono che come diritto comunem il giure longobardo andò fuori uso alla fine del secolo XIV, e solo restò come diritto eccezionale, tollerato per alcuni atti speciali in favore di alcune famiglie…[1], ma la data del 1481, anno in cui ci fu la promulgazione degli Statuti scritti di Piedimonte, prolunga tale asserto nel tempo.

La persistenza del diritto longobardo nel nucleo umano ai piedi del Matese si spiega storicamente colla ragione che i Normanni e com’essi gli Svevi, audaci ma pochi, rispettarono per forza di cose gli ordinamenti locali, dividendo praticamente il regno in territori a diritto romano e in altri a diritto germanico, l’uno e l’altro trattati ugualmente, jura communia (Cost. Paritatem di Federico II). Si spiega anche colla geostoria. Com’è avvenuto ultimamente coi costumi popolari così avvenne per il diritto. Di fronte all’invadenza del Romano, il Longobardo si restrinse sempre più, e restò nelle «fare» periferiche, isolate, agricolo-pastorali, ai margini delle vie di comunicazione.

Coi Normanni il diritto franco si sovrappose ai precedenti. Questi restarono per gli homines inferioris gradus et villani, mentre il Franco, ristretto ai signori normanni, diveniva il mos magnatum.

Mantenendo nell’ambito del feudo il diritto consuetudinario, adattandolo in parte nelle relazioni esterne, nacquero gli Statuti comunali, consuetudini derivanti sotto tanti punti di vista dai diritti che sappiamo, e forse in maggior misura da quello longobardo, che sembra più adatto del Romano al frazionamento e all’economia del Medio Evo. La consuetudine era ripetuta esattamente e interpretata dai boni viri, i quali dovevano provvedervi sine fraude, secundum justitiam, secundum Deum. Era dunque il popolo, o meglio la parte dirigente e responsabile di esso, che legiferava per sé. Ne vennero gli usus, i laudamenta curiae[2].

Normanni, Svevi ed Angioini mantennero dunque le leggi locali preesistenti. Nacque un diritto personale e anche localmente territoriale. Alle comunità fu permesso di mantenere, riformare e fare statuti, purché le disposizioni non venissero in conflitto col diritto del regno[3]. Se la consuetudine taceva si poteva ricorrere al diritto romano, considerato sussidiario. Da ciò il suo introdursi, testimoniato dalle frasi e concetti giuridici.

Questi caratteri si riscontrano negli Statuti di Piedimonte[4].

 

Esame esterno del testo.

 

Nel «Museo alifano» di Piedimonte, in Terra di lavoro, gli Statuti medioevali della terra sono conservati nel codice pergamenaceo n. 22. Sulla loro autenticità nulla da eccepire. Sono rilegati in un volume:

1. Statuti municipali di Piedimonte.

2. Grazie e riconoscimenti dei signori di Piedimonte, Onorato e Ferdinando Gaetani, durante il ‘500.

3. Conferme dei signori Alfonso e Antonio Gaetani e di D. Nicolò principe di Piedimonte.

4. Formule di giuramento dei Governatori annuali della terra di Piedimonte dal 1581 al 1793.

 

Le dimensioni sono disuguali. I 15 fogli su cui sono gli Statuti e le grazie sono di cm. 23 x 17,5, tutti gli altri di 29 x 21,5. La scrittura per i primi è la gotica con eleganti iniziali per i titoli. Per il testo degli articoli è di transizione dalla gotica alla umanistica. Per tutto il resto è il corsivo comune. Gli articoli, non numerati, sono 86. I titoli sono in rosso, il testo è in nero.

Per gli Statuti sono 15 fogli, ma erano 16. Manca il foglio n. 11. S’intuisce dal senso: il 10° foglio termina parlando della parata da fare nel lago Matese, e l’11° inizia parlando di pignorazione. E si sa anche di una altra copia degli Statuti nell’archivio del Principe di Piedimonte, da cui si sa di altri 6 articoli, i cui titoli sono qui riportati. Anche al termine di essi pare ci sia interruzione. Si deduce dal testo interrotto, dalla data in calce. Ma non manca che poco. Due articoli scritti erratamente sotto un sol titolo, appaiono sdoppiati, con titolo posto di fianco, in corsivo gotico nero. Sono: 68 De creandis officialibus, e 71 De tempore accusandi de damno dato.

Del codice presso il museo nel 1961 ne fu fatta copia fotostatica che si conserva presso l’Archivio di Stato a Napoli. Per comodità di riferimento in questo Quaderno sono stati aggiunti i numeri.

 

Esame interno del testo.

 

Stando già all’intestazione, i capitoli furon fatti «in numero opportuno et copioso». Contengono dunque tutti gli usi locali, e ne fanno una legge[5].

Badando all’ordine morale e alla sicurezza pubblica: 1 contro la bestemmia, e 2-3 per il porto abusivo di armi. 21-22 badano al rispetto della proprietà, e si arriva a 38-39 che sono relativi alla quiete pubblica, 44 discorre sulla resistenza all’azione penale, e 46-47 definiscono i rapporti di lavoro.

Fanno quasi da intervallo fra gruppi più compatti e distinti quali sono 4-21 per l’allevamento e la conseguente produzione di carne, 48-53 che riguardano la pesca nel lago Matese, 29-34, che stabiliscono i danni, 41-45 che disciplinano i diritti e i doveri dei funzionari, 54-58 e 61-69 procedurali ed amministrativi, e 76-85 che trattano di diritto matrimoniale. Ma benché i gruppi siano ben distinti, qualche volta sembra ci si ricordi improvvisamente di qualche omissione, com’è in 70 che si rifà a 35. Quanto riguarda le attività economiche elementari è in generale proibitivo e negativo, mentre quel che tratta di amministrazione e diritto matrimoniale è invece normativo e positivo.

Basandosi su necessità attuali e su un materiale esistente, i «probi et discreti homini» discussero e lasciarono «correpti, facti et emendati» 86 articoli. Dunque tre operazioni: 1 conservazione di consuetudini, 2 stesura di nuovo, 3 rettifiche. Non si può nei particolari stabilire per ogni articolo di quale operazione faccia parte.

75 e 86 sono d’interpretazione dei capitoli. Il primo, interamente latino, desunto da testi di legge, si riferisce alla potestà legislativa in generale e a dubbi d’interpretazione, mentre 86, tutto in dialetto e incompleto, allude a contraddizioni di indole locale. Perché non si seguono o si fondono? O sono, uno conclusione di un codice locale, mentre l’altro lo è di leggi generali?

Le disposizioni proibitive hanno valore per tutti ma, come se non bastasse, spesso a chiarire interpretazioni arbitrarie, si insiste sull’uguale azione della legge per entrambi i sessi «mascolo et femena». E si insiste pure su una chiarificazione che mostra la situazione mista di Piedimonte, abitato e campagna: la più parte delle disposizioni sono per «lo corpo de pedemonte», l’abitato, oggi rione S. Giovanni e periferie alle falde del Cila (Coppetelle) e alle falde del Muto (S. Benedetto, oggi Pietà). Per una minore parte si chiarisce che la disposizione vale espressamente per «lo castello, li casali, li burgi». Siamo certamente di fronte a più specificate esigenze e controlli dell’abitato e ad un’inevitabile trascuranza della campagna. Sono chiarificazioni che ci danno anche un quadro topografico della signoria piedimontese sia nella ubicazine (posizione periferica rispetto alle vie di comunicazione e commercio), sia per la geoeconomia (estensione territoriale in pianura e in montagna, colla conseguenza di due economie e di un commercio interno).

 

I gruppi di articoli e gli interessi.

 

I gruppi di articoli testimoniano gli interessi piedimontesi, e le norme della vita associata alla fine del Medio Evo. Sono interessi locali di un centro al limite della pianura, e dalla vasta estensione collinare e monutosa sui contrafforti del Matese.

Fra i 24 che disciplinano produzione, allevamento e commercio, 8 riguardano la carne e 7 la pesca nel lago. Segno di origine locale e antica. Per l’agricoltura, 5 articoli trattano del prodotto e 7, accennando ai danni campestri, testimoniano pure la gelosa difesa della produzione agraria.

Il commercio è interno ed esterno. Per quello interno – si tenga presente la topografia – si ha il gran vantaggio dello scambio del prodotto fra pianura e montagna. L’agricoltura della prima si integra col pascolo dell’altra, e coll’uso dei boschi, 34-35. La transumanza (21) è attuata non solo per ovini, ma per bovini, «somerini», cavalli e maiali. Il commercio esterno – s’intende verso le limitrofe signorie e anche un poco verso i centri campani – è presente nel controllo delle carni importate 6-8 del pesce 14, nell’importazione di panni 28, olio 19, vino 37, degli ortaggi 17, e naturalmente del sale70. Dalle norme proibitive appare la difesa del prodotto locale, certe esenzioni dell’allevatore «vùttero», limitazioni al commerciante «frustéro», ecc.

L’igiene pubblica piglia le mosse anche dalla produzione, come in 8-21 e da eventuali fonti d’infezione, quali i macelli 12-13, le fontane sorgive 23-24, il Torano e il Toranello dove si lavava, e la pulizia delle strade 40.

Un terzo gruppo di norme ha aspetto sociale. Oltre quelli sulla bestemmia e sicurezza pubblica, il 21 riguarda il rispetto della proprietà, l’abigeato 22, le risse 38, la tutela dei boschi dagli incendi 25, la disciplina dei danni campestri 29-33 e 36, e forestali 35-36. Neanche in questi articoli si perde il colore locale, anche se si tratta di norme comuni dovunque.

Entriamo ora nella disciplina dell’amministrazione e della procedura penale. I capitoli disciplinano il salario degli impiegati 42, gli emolumenti 43, la prigionia nel castello (poi palazzo) 44. Accennandosi  in questo alla severa procedura penale, appaiono gli ampi diritti della Corte locale, il cui «mero e misto impero» era stato chiaramente sancito sia nei decreti di Giovanna I, che nel fidecommesso di Onorato Gaetani senior, il 16 Ottobre 1437[6]. Al codice scritto il giudice locale sarà legato, ma assai spesso il suo «reservato arbitrio» porta il meccanicismo della legge ad una umanizzazione di essa, che del resto ha attenuanti molto comprensive per le necessità quotidiane in 40.

Articoli procedurali amministrativi 65-71 culminano nell’ultimo, che ha quasi valore politico. È il signore che vuole il sindacato dei propri ufficiali, e con una Corte di giustizia così mista che ne lascia ammirare l’intenzione sincera. Anche il contenzioso che riguarda debiti e obbligazioni, strumenti e pignorazioni, non sfugge al legislatore piedimontese. Le «parcelle» dividono equamente il percepito tra funzionari feudali e popolari 59. Insomma un codice completo in miniatura 54-65. È il freno che la legge scritta darà al funzionario. E come il 65, anche il 73 ribadisce che l’intervento dell’autorità avviene solo in seguito a denunzia, con tre eccezioni indifferibili. Un piccolo regolamento municipale è poi in 66-69.

Dunque, niente mos magnatum ma legge di popolo. È la vita di questo che ci appare nei suoi aspetti essenziali e caratteristici, perfino nei tentativi di evasione 29. Da tutto ciò non deriva tanta importanza nei rapporti di lavoro 47-47. Il primo termina abbozzando perfino una vertenza «sindacale». Sono proprio i salariati e braccianti, ma che non appaiono molto numerosi, in quanto datore di lavoro e lavoratore erano allora spesso fusi nella stessa persona, e ai loro diritti e doveri pensava la corporazione. Per questi «vaticali» e «vastasi» pensa qui la legge.

 

Una pagina di civilizzazione.

 

Sono dunque questi Statuti tutta una pagina interessante di storia locale, sono la manifestazione di un desiderio di maggiore giustizia, razionalizzazione dei servizi e loro distribuzione. Vedendoli nella filosofia della storia del Vico, appaiono un esempio di come l’interesse egoistico può assurgere a civiltà. L’azione della legge vi è diretta a reprimere quanto può essere prepotenza e abuso, sporcizia e profitto, in un’azione che vuol disciplinare il guadagno, che prevede l’inevitabile corruzione o negligenza del magistrto, che vuol frenare il sopruso dei subalterni di Corte. L’avvantaggiare del produttore-consumatore (16) sul commerciante indica l’economia curtense della borghesia e del popolo, appena scalfita dal commercio che deve adattarsi, deve limitarsi, specie se esterno 17, per non turbare la produzione locale.

Notevole è in essi la compartecipazione al potere, moderata, per entrambe le parti, e la separazione dei poteri, abbozzata in 42, fra l’imposizione del capitanio e l’esecuzione che non sarà fatta dai suoi «famigli», ma tramite i castaldi di Piedimonte; notevole infine l’invalidità degli atti in 45 se c’è l’assenza di chi rappresenta il popolo.

 

Evoluzione degli Statuti nel tempo.

 

Alcune parti degli Statuti si riferiscono alla legislazione generale del Regno, altre sono prodotto locale.

All’applicazione della legge regia che deriva dalle costituzioni di Re Ruggero II e successori fino a Re Ferdinando I di Aragona, fanno esplicito riferimento: 1 sui bestemmiatori; 15 sui metodi di misurazione usque ad summum (e la legge recentissima era in quel caso l’editto di Re Ferdinando del 6 Aprile 1480); 33 contro gl’incisori di viti (data l’importanza che la viticultura aveva nel Reame); 38 per quanto riguarda la provocazione alla lite; 39 per le parole ingiuriose; 44 di procedura penale; forse gli emolumenti della Corte (adattati); e 80 circa la procedura giudiziaria. Ma soprattutto prova questo il riferimento costante, l’improvviso ricorso alla frase giuridica latina, che spesso appare quasi un completamento della espressione dialettale. Ma se ne parlerà a proposito del linguaggio.

Di tipicamente locale c’è quanto riguarda produzione e allevamento, e sua disciplina (esigenza di geoeconomia locale). Col 44 De carcerandis, benché ci si rifaccia al diritto feudale, certo la perangaria della custodia in castello (abolita dal conte Ferdinando nel 1539), la prevista resistenza del carcerando, e il vario tenore di una prigionia relativa alla possibilità della giustizia di rifarsi sulla proprietà, è applicazione locale ben discussa dai «costituenti».

Sono norme antiche, ma appartengono esse ad una precedente codificazione? O è soltanto consuetudine che vien scritta per la prima volta? Sembrerebbe così, stando alle espressioni «como antiquamente è stato consueto». Vediamone qualcuna.

Il 45 ci ricorda i due giudici locali. Non già che essi siano esistiti solo a Piedimonte, ma certo nella redazione degli Statuti appaiono antichissimi. Una delle teorie degli storiografi locali è che Alife distrutta nel sesto secola da Longobardi, si sia «trasferita» nei suoi abitanti ed istituzioni nel vicino, fortificato abitato ad pede de monte, a Piedimonte[7]. Da ciò i due giudici tanto somiglianti agli antichi duoviri jure dicundo del vicino municipio romano. Così per la transumanza interna pedemontana, di origini preistoriche. Ma quando e come si precisarono i suoi periodi nelle feste cristiane? E il diritto matrimoniale e testamentario longobardo, da quale legge è derivato?…[8]

Comunità e feudo.

 

Stando a questi Statuti redatti da piedimontesi, si ricava di una comunità che legifera col permesso del suo signore (v. Intestazione): Libertas et imperium, avrebbe detto Tacito.

La «Costituente» ha dunque un’autonomia per tutto ciò che è disciplina interna, e nella codificazione di un Jus populare, fin allora consuetudinario. La struttura della comunità pedemontana è ben visibile sotto la sovrastruttura politica[9]. Questa acconsente dal di fuori, non diviene parte integrante. La piccola monarchia locale attua un intervento moderatore sui suoi funzionari, in 71. Solo per questo si fa specificatamente vivo il conte di Fondi e signore di Piedimonte.

Ora, se la struttura è antica, e si basa su un carattere comunitario quasi tribale, latino-sannitico con sovrapposizione longobarda, essa è senz’altro anteriore al feudo, nato storicamente nel secolo XI. Negli Statuti si codifica dunque un’attività popolare estranea al mos magnatum. Ma chi sono i «probi et discreti homini»? Se fino a tutto il ‘700 si eleggeva nel primo ceto, è chiaro che erano gli abbienti. Dunque sono le famiglie proprietarie e dirigenti che preparano la nuova Carta. Su questo non si discute. E intanto è notevole che negli interessi e nella disciplina non sia dimenticato il popolo, e che quasi non si tenga conto di disuguaglianze sociali. È audace dir ciò, ma diversamente è mai possibile pensare che tutti i valvassori locali, i legislatori del 1481, vogliano escludersi dalle conseguenze di legge?

 

Il linguaggio.

Vi sono Statuti in perfetto latino[10], altri interamente in dialetto. Questi di Piedimonte sono in una curiosa mescolanza di lingua e stile. Il titolo degli articoli è sempre in latino, ma nel corpo di essi si varia con indifferenza ed immediatezza dal dialetto all’italiano, al latino, perfino ad uno pseudo italiano, né si dimentica qualche vocabolo ispano-catalano.

A volte fra il vocabolo latino, italiano, e dialettale appare una correlazione che va dalla corretta dizione latina nel titolo, «emere» alla traduzione nel latino popolare «comparare» alla dialettale «accaptane». Così «mixte, excoriando» nel titolo, diventano nel testo «mestecate, scortecane», mentre «victualium, blasfemare» diventano in un ignorante italiano «victugallie, biastemarà». Ma anche un latino che si sta evolvendo in dialetto è spiegato popolarmente, così «restuccis» (stoppie) diviene «restocchie», che esiste tuttora.

Ma se lo pseudo italiano è sforzato e ridicolo («càpora, gàmbura, penitire, bascellu» per teste, gambe, pentire, vasetto), il dialetto autentico è invece assai vivace, perché spontaneo. A volte entra perfino nel titolo latino, altrimenti intraducibile. «Frustéri, appilati, pumi, rinto, ciuse, scippassero, scassassero, mézo, soe», sono termini vivi, come son vive le metatesi «crastati, crape, prète». Commuove il prolungarsi nei secoli di certa pronunzia, e di particolarità grammaticali proprie della zona. C’è per esempio un plurale femminile in –uni, -uti, mentre dovrebbe essere in –one, -ote (napolitano): «persuni, duti»; e c’è anche una desinenza verbale in –eno al posto di –ero: «expedisseno». Gustosi sono gli sforzati idiotismi per cui un verbo diventa transitivo: «penare lo suo dilicto». L’apostrofo è graficamente ignorato, e all’accento del monosillabo si supplisce raddoppiando la consonante. Così  diventa lla. Qualche volta non è solo la desinenza a fare il plurale. Muta anche la sillaba: «vérgolo» (paragrafo) diventa «vìrgoli».

In generale, il dialetto, come appare scritto, è vivo se la pronunzia è ricavata dalla traduzione paleografica (cc, cz, z, zz). Il latino ha invece una grafia quasi sempre esatta. Qualche errore è solo ortografico: «nicolominus». Ma si accennava al passaggio improvviso della frase dal dialetto al latino. Ciò avviene nel gergo curiale, e crea uno stile di saccenteria che diverte.

A volte la frase latina serve da nesso alla dialettale: «statim tornato che fora» 7, «item quod ciascheuno quàrteri». A volte è completamento: «chi contrafarà in quolibet parte huius capituli» 50. A volte tutto l’articolo, 43, è in latino.

In quest’invadenza del latino e dell’italiano sul dialetto vedo l’invadenza parallela e progressiva della legge generale sulla norma locale particolare. E questa legge deriva sempre più dal Romano, e restringe il Longobardo a poche norme radicate. Se questi Statuti fossero stati redatti alcuni secoli prima avrebbero mostrato in volgare soli gli elementi locali, e se alcuni secoli dopo avrebbero trattato in latino o in italiano solo un regolamento municipale comune dappertutto.

 

Il diritto privato matrimoniale

 

Dopo che in 75 si è concluso il regolamento amministrativo, ecco trattato in 10 articoli il diritto matrimoniale che merita un cenno a parte. Di fronte alle semplici proibizioni dei primi articoli, qui appare una norma giuridica ampia e approfondita. E forse, a parte le consuetudini preistoriche della transumanza, qui è la parte più antica degli Statuti. E qui mostrano pure che una mescolanza razziale c’è stata in Piedimonte nel primo Medio Evo.

È evidente in 76 il morgengab longobardo. Il prezzo della verginità, dopo la prima notte di matrimonio, fu fissato dal Re Liutprando come equivalente alla quarta parte delle sostanze maritali, e dalla legge beneventana su l’ottava parte.

Ora, il «dono del mattino» a Piedimonte consiste di Carlini 7½ che sono l’ottava parte di un’oncia: perciò è lampante la legge beneventana. Non solo, ma nel codice di Re Liutprando il dono proviene dalla proprietà del marito, invece qui appare come rimborso, come parziale restituzione di quanto la sposa ha portato.

Molto interessante è il 77. La meta  o mefio era in origine il prezzo della donna. Anche quest’istituto s’era trasformato sotto l’influenza cristiana, e nelle leggi di Re Liutprando era ormai un assegno dello sposo alla sposa. Si fuse col morgengab, e dette origine ad un assegno unico, la quarta[11]. Tanto ci dicono gli storici. Ebbene qui, in pieno ‘400, appare ancora distinta. Ma mentre il dono del mattino è guadagnato sempre, la meta è guadagnata solo se la dote è stata effettivamente ricevuta dal marito, e sempre a morte di lui. E la sposaa l’avrà sul versato, anche se il marito gliel’avesse assegnata sul versato e insieme su quanto era ancora da versare.

In 77-85 gli Statuti trattano della funzionalità della dote che acquista valore di patrimonio reale in funzione dei figli, e anche qui, accanto alla legge generale affiora l’adattamento locale sui metodi di riscossione e di scomputo. Nella trattazione, 81, entra il tipico quadretto di una cerimonia nuziale del piccolo borgo medioevale. Tra offerte allo sposo e spese di questo, sembra ci partecipasse quasi tutta la «fara» pedemontana, altrimenti non si insisterebbe per legge su offerte e spese che appaiono considerevoli. E anche 84 e 85 sono interessanti, sia per il tocco di colore che per le sopravvivenze giuridiche longobarde. «Gonella, coregia, coctardita, perne, campanelli, fusi» lasciano immaginare la pupattola che va in chiesa ammiratissima. E mostrano anche quanto rimaneva del mundio, espresso da una gelosa wadia prematrimoniale. E anche la modesta economia del popolo fa capolino in 85. I sacrifici del povero fidanzato esigono che le ornamenta «non se intendano donate ma date ad usu», con solo una percentuale alla sposa in caso di morte di lui. E se le vuole saranno computate sulla dote.

Sono sopravvivenze notevoli in quanto, oltre ad attestarci tante cose, ci hanno anzitutto mostrato la complessità del piccolo codice che non si riduce a un regolamento municipale, a un tariffario di contravvenzioni, ma è legislazione radicata nell’animo piedimontese, rinforzata dall’ubicazione e dall’economia, ed addentrantesi in una visuale giuridica sempre più vasta.

 

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[1] SALVIOLI G.: Trattato di storia del diritto italiano. 1908, pag. 85.

[2] BESTA: Sull’origine dei Comuni rurali, in Riv. Ital. di Sociologia, 1899, III.

[3] Sui rapporti fra uatonomie locali e Governo, lo Schupfer vede come una legislazione che si arresta a mezza via. Ma per l’esatta comprensione, tutto sta a non paragonare gli Statuti comunali delle regioni centro-settentrionali d’Italia con quelli del Reame. Non c’è lotta qui tra autonomie locali e Stato. Scrivere Statuti non era attaccare il potere statale, in quanto essi già preesistevano oralmente.

[4] V. il mio lavoro: «Piedimonte», Napoli, 1961, p. 103.

[5] Sulla legislazione statutaria «ampia e svariatissima» vedi il CALASSO in La dottrina degli Statuti per l’Italia meridionale (Roma, 1928); BESTA in Storia del diritto ital.; CICCAGLIONE: Il diritto esterno dei municipi napoletani (Napoli 1884) che inquadra bene: «conciliare un decoroso rispetto per il diritto colla politica necessità di non spiacere al sovrano».

[6] V. «Piedimonte», pag. 78.

[7] TRUTTA G. F.: Dissertazioni istoriche sulle antichità alifane, Napoli 1776, p. 282. Riassunte su «Piedimonte», p. 32.

[8] Per la legislazione feudale in Pied. v. «Piedimonte», p. 77, 85, 117.

[9] Il diritto della città a legiferare era riconosciuto, (sec. ANDREA DA ISERNIA: Proemio) nelle cose sine quibus non possunt vivere. Ma il diritto degli Statuti di Pied. esce dalla stretta necessità.

[10] Fra i tanti quelli della vicinissima Alife, nel mio lavoro: «Modifiche statutarie in Alife nel sec. XVI», su SAMNIUM, 1962, n. 3-4.

[11] Per la quarta si veda in Leges Liutprandi regis (M.G.H. Leges) IV, p. 110: «Si quis Longobardus morgingap…».