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Il simbolismo nella moneta dell’antica Beneventum

 

(In Bollettino di Numismatica, Anno I, n. 2, marzo-aprile 1929, pp. 1-4)

 

 

Delle antiche monete di Benevento – quelle che vanno dal III al II sec. a. l’E. V. – trattarono autorevoli storici e nummografi, i quali, non solo ce ne han fatto conoscere l’epoca, i caratteri, il pregio, ma quanto han dichiarato il significato simbolico dei vari tipi da esse esibiti. E però del simbolismo delle monete di Benevento non ci occuperemmo se non intendessimo riassumere ciò che altri ne dissero e soffermarci su qualche particolare, di ordine ermeneutica, di maggior rilievo. E, prima di trattar l’argomento, esaminiamo le monete.

Di esse si conoscono i seguenti tipi, che divideremo in due gruppi:

 

Primo gruppo, con la leggenda MALIEΣ, dell’anno 300 circa av. L’E. V.:

a)     D/. Testa di Apollo a dr.

R/. Toro a faccia umana a dr.; sopra: casco; nell’esergo MALIEΣ.

b)    D/. Testa femminile a dr. Ornata di gioielli; davanti: MALIEΣ[1]

R/. Toro a faccia umana a dr., con la testa di fronte; sopra: maschera di Sileno.

 

Secondo gruppo, con la leggenda BENEVENTOD, dopo l’anno 268 av. l’E. V.:

c)     D/. Testa laureata di Apollo a sin.; intorno: BENEVENTOD.

R/. Cavallo libero galoppante a dr.; pentagono; intorno: ΠOM ΠRO[2].

d)    D/. Testa laureata di Apollo a sin.; intorno BENEVENTOD.

R/. Cavallo libero galoppante a dr.; leggenda interrotta dal pentagono, e cioè: Π (pentagono) OM ΠRO.

 

Sarà bene sapere che un gruppo di scrittori non assegna a Benevento le monete con la leggenda Malies; un altro gruppo, con prove ed argomentazioni più fondate, afferma il contrario. Il Millingen[3], seguito dall’Avellino[4], attribuì in un primo momento, le monete ad una città sannitica di nome Meles, menzionata da Livio, poi a Malventum. Le due attribuzioni furono però contestate dal Dressel[5].

Il Riccio[6] poi, pur facendo l’attribuzione a Meles, trasforma la leggenda delle monete a) e b) in MALIESA O MALIEZA distinguendole da quelle di Benevento, e altera in ΠPOΠOVM la leggenda intorno al cavallo delle monete c) e d).

Il Sambon[7], a sua volta, sull’attestazione di Livio e di altri scrittori, si riporta alla generale opinione, che cioè il nome Maluentum si cambiò in Beneuentum, e che le monete con la leggenda BENEVENTOD sono posteriori alla spedizione dei coloni di diritto latino da parte dei Romani in quella città. Dice, inoltre, che i tipi monetali di Benevento imitano i didrammi con la leggenda ROMANO. E ricorda che sulla significazione del motto ΠOMΠRO o ΠROΠOM si è molto discusso, vedendovi il Millingen il nome di un magistrato: ΠROΠOM (Probus) e il Mommsen ΠOMΠRO. Il Garrucci[8] sull’analogia delle monete di Suessa Aurunca, interpretò ΠOMΠOM per “proba moneta”, scorgendovi l’allusione ad una convenzione monetaria.

Dal “Dizionario Epigrafico” del De Ruggero[9] rileviamo che Benevento si disse prima, in greco Μαλόςις o Μαλους; in latino Maleventum o Malventum; più tardi fu chiamata Βενεουεντόυ e da altri Βενεβεντός. Lo stesso Dizionario conferma la tradizione che attribuisce questo mutamento al fatto che, dopo la sconfitta di Pirro nel 486 di Roma, essendosi dai Romani spediti, come si è detto, dei coloni di diritto latino in quella città, il nome, affinché fosse di migliore augurio, fu da Malventum mutato in Benevento.

Dal complesso di quanto si è detto si trae la conclusione che Benevento sarebbe l’antica Malies e che le monete riportanti le leggende MALIEΣ e BENEVENTOD si apparterrebbero alla regina del Sannio, bagnata dal Sabato e dal Calore.

E passiamo all’argomento riflettenti i tipi e i simboli.

 

 

Innanzi tutto diremo che le monete surriportate appartengono a quella classe denominata greca, nella quale sono aggruppate tutte le monete dell’antichità classica, escluse le romane. In base a questa classificazione sarà facile spiegare i tipi in esse riprodotti tenendosi però presente quella che era in quei tempo la cultura e l’espressione delle credenze e dei sentimenti del popolo beneventano, basate sui miti, ossia su quel grandioso corpo di narrazioni favolose di cui consta la mitologia classica. Da questa apprendiamo che i miti sono di origine naturalistica; che “le primarie divinità greche e romane, come quelle degli altri popoli ariani, si connettono ai grandi fenomeni della natura, come dimostra l’etimologia dei loro nomi”, e che “la loro immagine sorse dalla personificazione delle forze naturali, aggiuntavi quell’idea del divino – ossia della somma intelligenza e del sommo bene – che è innata nell’uomo”.

La Mitologia, quindi – contrariamente all’opinione diffusa – non è un libro di favole ma un libro di scienza, e su questa scienza, appunto, vanno interpretati i tipi e i simboli delle monete dell’antichità classica.

Quando vediamo riprodotta la testa di Apollo sulle monete, come su quelle di Benevento, non dobbiamo pensare che la rappresentazione avvenisse per eternare le sembianze di quella divinità. Essa simboleggia il Dio raggiante, il Dio della luce, il sole insomma, che, uscendo dal grembo della terra, fuga le tenebre ed i rigori dell’inverno; vale a dire: la manifestazione di un inno alla lussureggiante terra beneventana, ricca di acque e di sole il cui fecondo calore matura i frutti del suolo. Basterebbe seguire una parte delle leggende riguardanti Apollo per convincersi che le stessi si riferiscono quasi sempre agli effetti della luce e del calore solare sulla vegetazione. Nel mito di Giacinto – il giovane spartano amato da Apollo per la sua straordinaria bellezza e da questi ucciso con un involontario colpo di disco mentre dal sangue sparso nasceva l’omonimo fiore – è evidente il significato naturalistico ed il valore fisico di Apollo (il sole), per il fatto che il disco solare dissecca all’esterno la pianta, che germoglia tuttavia e rifiorisce.

Chiaro è adunque lo scopo per cui i beneventani rappresentassero sulle proprie monete l’effige di Apollo, com’è chiaro perché rappresentassero nel rovescio di esse la figura del toro androprosopo, il quale simboleggiò il fiume[10], e nel caso nostro i due fiumi che bagnavano l’importante città sannitica. I fiumi, “benefici apportatori di fecondità alle terre, erano, per i Greci, oggetto di vero culto. Avevano i loro templi, i loro sacerdoti, i loro sacrifici; il loro corso era sacro, né era lecito passarli senza una preghiera, né costruirvi ponti od altre opera manuali senza cerimonie d’espiazione. Naturalmente ogni fiume aveva il suo culto locale”. Tra quelli che ebbero celebrità maggiore ed esteso culto fu l’Acheloo, il più grande dei fiumi di Grecia.

Sofocle, che dire a Deianira: “Il fiume Acheloo, innamoratosi di me, mi chiedeva a mio padre, ora sotto forma umana, ora sotto forma di dragone, ora sotto forma di toro a faccia umana …” – donde la nota lotta tra il toro ed Ercole che gli strappò un corno (il famoso corno dell’abbondanza) – allude alla energia solare (Ercole) che costringe la nuvola (Deianira) ad innalzarsi, condensarsi e trasformarsi, cioè a ricadere sotto forma di pioggia, dando luogo al germogliare dei fiori e delle frutta di cui è colmo il cennato corno dell’abbondanza[11].

Per qual ragione lo stesso Omero fa nascere dai fiumi molti eroi greco-troiani? La ragione la si rinviene appunto nel significato che gli antichi davano alla scienza naturalistica del tempo, la quale affermava che tutto ha origine dalle acque e tutto muore trasformandosi in acqua. Se così non fosse dovremmo dire che la Mitologia classica altro non sia che una raccolta di curiosi indovinelli, e i simboli sulle monete il capriccio di artisti fantasiosi. Ma non è così, perché la scienza di quei tempi era stata tanto bene accettata, da diffondersi per tutta la Grecia, la Sicilia e la Magna Grecia, arrivando fino a Roma.

“Anche le sorgenti erano venerate or come irrigatrici, or come risanatrici dell’aria, or semplicemente come chiare, fresche e dolci acque, che danno allegria ai boschi, ai monti, alle valli, onde l’immaginazione le popolava di graziose ninfe”. E come per Cuma “la fondatrice è la ninfa Cuma, che significa onda, per Napoli la sirena Partenope, ossia l’acqua vergine; per Taranto è Falanto, figlio di Nettuno, Dio del mare; per la Sicilia la ninfa Imera, cioè l’acqua feconda; per Siracusa la ninfa Aretusa, cioè l’acqua irrigua; per Roma la Lupa, simbolo del ruscello …” così affermiamo che la testa femminile sulle monete colla leggenda MALIEΣ rappresenta la ninfa fondatrice della città.

La maschera di Sileno (si badi che l’antica Mitologia non parla solo di un Sileno, ma di moltitudine di Sileni) – rappresentata nel rovescio della moneta b) di Malies – completa il resto, perché essa simboleggia il Genio dell’acqua che corre, irrigua e feconda. E siccome i Sileni furono ideati con orecchie e coda di cavallo troviamo che il cavallo, appunto, era sacro quasi sempre alle deità acquee, a quelle solari ed alle deità belliche. Lampo, ad esempio, uno dei cavalli di Eos (Aurora) ha il significato di splendore, cioè quella luce che previene il carro del sole, della quale si gratificano gli dei e gli uomini, ed Eos è la sorella di Elio (sole), confuso poi con Apollo.

Ecco perché sulle monete di Benevento troviamo il cavallo libero galoppante. Con esso gli antichi beneventani vollero certamente simboleggiare la magnificenza del proprio cielo unitamente alla loro caratteristica indole fiera ed indomita, di cui abbiamo ripetute prove nella storia della città.

Concludendo, adunque, l’antica monetazione beneventana – contrariamente a quella romana che racchiude un concetto storico – illustra concetti scientifico-naturalistici, in unione a quelli religiosi, espressi in forma allegorica. Ed è, come si è visto, quantunque ristretta, una monetazione interessante ed istruttiva perché ci fa conoscere anche il grado di cultura e di civiltà cui, oltre due millenni or sono, era pervenuto il popolo beneventano.

R. Marrocco

 

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[1] L’E, talvolta, è a forma di una C quadra.

[2] Il Π è di forma arcaica, cioè con la seconda gamba più corta.

[3] T. Millingen, Consideration sur la Num. de L’anc. Italie, Firenze 1841.

[4] I. M. Avellino, in Suppl. Italia Vet.

[5] H. Dressel, in Zeitschr. Für Num. 1885.

[6] G. Riccio, Rep. delle mon. Di città antiche, Napoli 1882.

[7] A. Sambon, Les monn. ant. de l’Italie, Parigi 1903.

[8] R. Garrucci, Le mon. dell’It. ant. Roma 1885.

[9] E. De Ruggero, Diz. epigr.di ant. rom. Roma 1895.

[10] Non manca qualche autore il quale, circa la vexata quaestio del toro androprosopo, sostiene altra tesi. Vedasi N. Borrelli, in “Miscellanea Num.” 1922.

[11] Cfr. L. Posteraro, in “Archivio Storico del Sannio Alifano” 1916.