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Raffaele Marrocco
LE MURA DI ALIFE E L’ISCRIZIONE IN ONORE DI FABIO MASSIMO
Un celebre falso epigrafico
(in Archivio Storico del Sannio Alifano..., 1920, vol.
V, pp. 3-12)
Le affermazioni di antichi ed
autorevoli storici[1] che
classificano Alife città fortificata, provano com’essa sia stata murata sin
dalla sua origine. La stessa regola che vigeva nei villaggi piantati su
palafitte della regione padana –caratteristici per le loro reti di strade
tagliantisi ad angolo retto ed orientate secondo i punti cardinali[2]-
la ritroviamo in Alife, ove essa determina col suo «cardo» (N-S), e col suo «decumanus». (O-E), la pianta della città,
chiusa, per le sue mura fiancheggianti, come in un parallelogramma.
Queste
mura che portano le tracce di una vandalica distruzione, non sono però quelle
originarie, in quanto che il loro carattere costruttivo non è rispondente a
quello delle quattro porte di epoca anteriore. Ciò si spiega per il fatto che
Alife, o in conseguenza di un terremoto, o perché ebbe a subire, in vari
avvenimenti, continue espugnazioni[3],
abbia dovuto rifare le sue mura -quelle attuali- ritenute, come affermano due
nostri scrittori -il Giorgio[4]
ed il Trutta[5]- opera di un
Fabio Massimo, che sarebbe fiorito nel periodo da Adriano a Galerio[6],
cioè tra gli anni 117 e 305 dell’E.V.
Le
affermazioni di questi due scrittori sono desunte da varie circostanze,
principalmente dalla seguente iscrizione riportata nei loro testi: FABIO MA /
XIMO. V. C. / CONDITORI. MOE / NIVM. PVBLICO / RVM. VINDICI / OMNIVM. PECCA /
TORVM. ORDO.
ET / POPVLVS. ALLIFA / NORVM.
PATRONO.
Altri
scrittori[7],
poi, posteriori al Giorgio ed al Trutta, non fanno che ripetere quanto questi
ultimi ebbero a pubblicare sulle mura e sulla iscrizione, senza menomamente
indagare l’autenticità del documento, e se il carattere costruttivo delle mura
fosse corrispondente ai tempi in cui sarebbe vissuto quel Fabio.
Prima
di entrare nel vivo della questione, giova esaminare i caratteri delle
costruzioni alifane, cioè le porte e le mura. Le prime appartengono all’opus quadratum , vale a dire al sistema
dei grossi blocchi parallelepipedi situati in filari alternati nel senso della
lunghezza e della larghezza, opus
che, com’è risaputo, contraddistingue il periodo etruscheggiante sino al III
secolo di Roma[8]; le altre,
cioè le mura, all’opus reticulatum.
Quest’ultimo sistema, posteriore a quello delle porte, non può appartenere
all’epoca in cui sarebbe vissuto il Fabio Massimo, perché allora era in uso,
invece, l’opus lateritium, che, com’è
noto, venne impiegato durante l’Impero[9].
La
mancata o trascurata conoscenza, adunque, di queste elementari nozioni sui
sistemi costruttivi nei vari periodi dell’antichità, avranno potuto, senza
dubbio, far cadere gli illustratori delle mura di Alife nel gravissimo errore
di assegnarle ad un’epoca posteriore di alcuni secoli a quella cui
effettivamente rimontano e, di conseguenza, nell’altro grave errore di ritenere
come autentico documento epigrafico l’iscrizione in onore di Fabio Massimo.
Le
une e l’altra sono invece in aperto contrasto tra di loro poiché le mura
appartengono, come si è visto, ai tempi repubblicani, mentre l’iscrizione, che
vorrebbe apparire dell’Impero, ma non lo è, come non è repubblicana, dovrebbe
essere coeva alle mura. Infatti manca di tutti i dati e di tutte le
caratteristiche dei due periodi, e non ha, poi, nessun elemento per poterla classificare
per lo meno del periodo di transizione. Essa si allontana persino dalle norme
della scrittura, della forma, e della composizione di quelle della decadenza. E
data la menzione che fa di un grande avvenimento, cioè della fondazione o della
ricostruzione delle mura di questa antica città sannitica, e del nome di un
illustre personaggio, nonché dei due dedicanti -ordo et populus- avrebbe dovuto riportare, come di regola, la
determinazione del decreto pubblico per il quale fu permessa, e l’accenno al
denaro pubblico erogato per la sua costruzione a mezzo delle consuete sigle,
comuni in tutte le iscrizioni onorarie latine. Tanto vero che era nelle
competenze dell’«ordo» di decretare «l’erezione di statue o di altri ricordi
marmorei o bronzei in onore di personaggi e di cittadini illustri»[10]
a spese «della cassa comunale [p(ecunia) p(ubblica)]»[11]
ovvero «con una somma di denaro raccolta per pubblica sottoscrizione (ex aere collato)»[12]
e «più di rado per colletta fatta fra i decurioni stessi (ex sportulis suis)[13];
così pure o di «propria iniziativa, o postulante
populo,» l’ordo procedeva alla «optatio» o «cooptatio» dei «patroni» della
città, scegliendoli fra quei membri degli ordini senatorio ed equestre che
avessero più comunanza d’interessi con la città stessa»[14].
L’iscrizione
che ci occupa, classificata tra le celebri, principalmente per il personaggio
che ricorda, è in pietra calcare, di formato rettangolare. Misura 0,69 x 0,41 x
0,23, con lettere di altezza variante dai quaranta ai cinquanta millimetri. Non
contiene cornice, né fregi.
Essa,
un tempo, cioè verso la fine del secolo XVIII, trovavasi in un orto accosto
alla chiesa di San Rocco in Piedimonte[15].
Poi scomparve sino a ritenersi distrutta. Il caso volle che la rinvenissi
murata
-nell’aprile del 1917- accosto alla porta di una casa colonica di proprietà
Meola, sulla strada interprovinciale per il Matese, lungi cioè quasi due
chilometri dall’abitato di Piedimonte. Del rinvenimento diedi immediata
comunicazione alla R. Sovrintendenza ai Monumenti in Napoli ed alla R.
Accademia dei Lincei.
Il
presidente del Comitato per la pubblicazione delle «Notizie degli Scavi», edita
dalla stessa Accademia, On. Conte Barnabei, dichiarò essere l’iscrizione di
notevole importanza. Facendone, ora, un particolare esame, che nel momento del
rinvenimento non ebbi agio di compiere, rilevo che questa iscrizione è un falso
vero e proprio, che per vari secoli ha ingannato non pochi eminenti
epigrafisti.
A
chi attribuire questo falso?
Con
fondata probabilità sospettiamo che ne sia stato autore Antonio Agostino[16],
vescovo di Alife, un insigne letterato ed epigrafista fiorito nel XVI secolo[17],
assai noto per una raccolta manoscritta d’iscrizioni, dalla quale il Grutero[18]
trasse, per primo, questa relativa al Fabio Massimo. L’Agostino che aveva in
animo di dare alle stampe le epigrafi di Alife[19],
era la persona più indicata a compiere il colossale falso, allo scopo evidente
di rendere più preziosa la sua importante raccolta. Prima di lui l’iscrizione
era ignota a tutti; se ne ebbe sentore quando il Grutero, come dicevo, la
trasse dalla raccolta. Ad idearla, a nasconderla, e a farla rinvenire, poi,
nessun altro, al di fuori dell’Agostino, poteva avervi interesse. Ora questa
famosa iscrizione, lungamente discussa ed ampiamente illustrata, che ha tenuto
occupati non pochi consessi di dotti, ed ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro[20]
è uno di quei celebri falsi che soltanto i De Resende, i Gutensteinius, i
Boisfard, i Ligorio, gli Stumpf, i Latius[21]
ecc.
-contemporanei del nostro Agostino- potevano concepire.
Esaminiamola,
ricopiandola dall’originale:
Q.
FABIO MA
XIMO. V. C.
CONDITORI MOE
NIUM PUBLICO
RUM. VINDICI
OMNIUM PECCA
TORUM. ORDO ET
POPULUS ALIFA
NORUM. PATRONO.
Come si vede, l’iscrizione porta in alto la consonante Q, non mai menzionata dagli scrittori che se ne sono occupati. Quell’abbreviazione indica il prenome del personaggio, cioè Quinctius, per contraddistinguerlo dagli altri omonimi della gens Fabia. Sotto tale nome la storia romana registra un’infinità di personaggi della stessa famiglia vissuti durante la Repubblica, ed alcuni soltanto nei primi tempi dell’Impero. Stando però all’epoca indicata dai nostri scrittori, cioè da Adriano a Galerio, ed anche in tutto il periodo imperiale, non riscontriamo l’esistenza di nessun Quinto Fabio Massimo patrono di Alife[22].
L’Ughelli[23],
il Freccia[24], ed il
Ciarlante[25] che
precedettero il Giorgio ed il Trutta nello esame della iscrizione, ma che
ignorarono quel prenome perché il documento epigrafico venne da loro studiato
attraverso il Grutero, sostennero che il personaggio in questione si potesse
individuare per il Q. Fabio Massimo che si assunse il compito di arginare gli
eserciti di Annibale. Tale congettura però è errata, perché l’iscrizione non è
del periodo repubblicano, e manca di dati certi per poter precisare quel
personaggio. Il Giorgio ed il Trutta, che esaminarono direttamente il
documento, non fanno, ad arte, nessun accenno a questo prenome[26].
Anzi il secondo, per sostenere la sua tesi, non solo nega il prenome
sull’iscrizione, ma si scaglia contro i summenzionati storici qualificandoli «come affastellatori di ogni merce»[27]
soltanto perché tentarono identificare il personaggio.
Questa
mancata trascrizione del prenome da parte di coloro che si sono occupati per
primi della iscrizione, è già una prova della falsità del documento, perché
rilevandolo, sarebbero stati costretti a confessare la inesistenza di quel
personaggio nei tempi imperiali ricoprente l’alto patronato su Alife, e quindi
l’inverosimiglianza d’essere stato il fondatore od il restauratore delle mura.
Si vede come il Giorgio ed il Trutta specialmente giuocassero sull’equivoco per
soddisfare un loro falso sentimento patrio e per coprire così l trucco ideato dall’Agostino.
L’Antonini[28]
però fu uno dei primi a notare il divario tra l’antichità delle mura e quella
dell’iscrizione, ritenendo, senza dimostrarlo, essere quest’ultima non
rispondente a verità, specie per quel vindici
omnium peccatorum così pieno d’impostura. A questa recisa affermazione, il
nostro Trutta, perdendo la misura della discussione, e lasciandosi sopraffare
da incomposta polemica, non degna della sua alta erudizione, investe l’Antonini
gratificandolo di ingiurie[29].
Lo
studio però dell’alfabeto latino, delle parole, dei nessi, delle sigle e di
tutti gli altri dati riflettenti l’epigrafia antica, serve pure a qualche cosa:
esso ci fa decifrare non soltanto le epigrafi, ma a determinarne,
approssimativamente, la data, e ci fa distinguere se un’iscrizione sia arcaica
o del tempo repubblicano, oppure dei primi periodi imperiali, ovvero sia
posteriore alla caduta dell’Impero d’occidente. Sulle basi, appunto di tale
studio, e per le considerazioni esposte e che diremo, abbiamo annoverata falsa
la iscrizione in onore di Fabio Massimo. D’essa, mentre vorrebbe apparire del
periodo indicato, ci offre per uno stupido errore del falsificatore, ancora
un’altra prova della sua falsità, quando tradisce la forma delle lettere. Tal
quale come lo scrittore di missive anonime che si rivela per la mancata
alterazione di una sola lettera del proprio alfabeto.
Infatti,
la costante regolarità della lettera V nella
forma ad angolo acuto che contrassegna l’u
vocale nella epigrafia latina, è
caratteristica appunto per questa sua particolare struttura. Nella nostra
iscrizione essa si presenta invece a base curva: U.
Questa
speciale struttura non è stata mai usata nell’epigrafia latina se non dal V
secolo dell’E.V., quando cioè comincia effettivamente ad apparire o, più propriamente,
tra gli ultimi anni del IV e i primi del V[30]
in un tempo cioè posteriore di due secoli a quello cui il Giorgio ed il Trutta
vorrebbero far rimontare l’iscrizione. Anzi nell’epigrafia monumentale la lette
V (u) mantiene l’angolo acuto non solo per tutto il periodo
dell’antichità classica, ma anche in seguito. L’U, a base curva, è
caratteristica nella scrittura unciale che cominciò in qualche iscrizione non
prima del III secolo dell’E.V. Ma naturalmente in queste iscrizioni, che sono
relativamente poche, essa è accompagnata sempre dalla forma unciale di tutte le
altre lettere insieme, sempre però trattandosi di iscrizioni non monumentali[31].
Nel
caso in specie non azzardiamo neppure l’ipotesi di una eccezione alla regola,
cosa del resto assurda, perché riuscirebbe davvero stupefacente il fatto che
fra tante iscrizioni antiche -dal I a tutto il II secolo dell’E.V.- soltanto
questa di Alife riporterebbe già riformato l’alfabeto latino.
Un’altra
prova ancora della falsità ce l’offre la parola ALLIFANORUM, così come
riportata dal Giorgio e dal Trutta, nonché dagli altri scrittori, e
propriamente in quella doppia LL, che nella iscrizione non esiste affatto.
Vero è che la parola Alife trovasi
trascritta nei testi ora con una, ora con due consonanti, ma in quelli
epigrafici -ad eccezione di un latercolo militare indicato dal Mommsen- è
riportata costantemente con due[32].
Ora, pur volendo attribuire ad un errore dello scalpellino la mancanza della
doppia consonante nella iscrizione, desta pur sempre sorpresa la variante che
n’è stata fatta nei testi. Pur ammettendo, in linea d’ipotesi, l’autenticità
della iscrizione, e pur facendola rimontare al V secolo anziché al periodo da
Adriano a Galerio, ed ammettendo altresì che in cotal tempo sia esistito il
Quinto Fabio Massimo in questione, come si farebbe poi a sostenere essere le
mura alifane anch’esse dei tempi imperiali?
Il
dilemma è chiaro: o l’iscrizione è autentica, ed essa dovrebbe riferirsi al
periodo repubblicano, ciò che è assolutamente assurdo, o è falsa, come lo è, ed
allora essa non ha nessun valore storico e il trucco appare evidente. Di qui
non si esce.
Rilevando
però la falsità di questo documento epigrafico in onore dell’ipotetico Fabio,
ci siamo ispirati unicamente alla risoluzione di una dibattuta questione
storica, senza alcuna pretesa di menomare il valore dei due eminenti scrittori
nostrani, specie del Trutta, la cui magistrale opera sulle antichità alifane
resta sempre una fonte di alta erudizione dalla quale non invano attingiamo per
conoscere la storia dei nostri paesi.
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[1] Cfr. Diodoro Sic.: lib. 20 – T. S. Frontino: «De Colon».
[2] Cfr. Luigi Serra: «Storia dell’Arte Italiana», Milano, 1913.
[3] Cfr. Gianfrancesco Trutta: «Dissertazioni istoriche delle antichità alifane»., Napoli 1776.
[4] Cfr. N. Giorgio: «Notizie Istoriche» ecc., Napoli, 1721.
[5] Cfr. Gianfrancesco Trutta: op. cit.
[6] Cfr. Gianfrancesco Trutta: op. cit.
[7] Cfr. L. Giustiniani: «Dizionario Geografico Ragionato del Regno di Napoli»., Napoli, 1797 – G. Mennone: «Riassunto storico dell’antico Sannio», Piedimonte d’Alife, 1894 – Perrot: «Note storiche su Piedimonte d’Alife», Piedimonte d’Alife, 1896.
[8] Cfr. Luigi
Serra: op. cit.
[9] Cfr. Luigi Serra: op. cit.
[10] Ettore De Ruggiero: «Dizionario Epigraf. delle Antichità romane».
[11] Ettore De Ruggiero: op. cit.
[12] Ettore De Ruggiero: op. cit.
[13] Ettore De Ruggiero: op. cit.
[14] Ettore De Ruggiero: op. cit.
[15] Cfr. Gianfrancesco Trutta: op. cit. – A. Agostino, in Panvinio, la riporta presso il Mon. di S. Salvatore fuori il castello di Piedimonte – Lo Smetius (ms. Neap. P. 164, ed 82,10) in un podere fuori Alife.
[16] Antonio Agostino, uno dei più dotti giureconsulti e prelati di Spagna, nacque a Saragozza nel 1516. Scrisse pregevoli opere. Ebbe favori e considerazioni da sovrani e pontefici pei suoi scritti di diritto civile e d’indole ecclesiastica. Fu consacrato vescovo di Alife da Paolo IV a 11 dicembre 1556. Nel 1561 fu trasferito alla chiesa di Lerida, poi nominato Arcivescovo di Tarragona. Morì nel 1586. (cfr. Ceccaroni: «Dizionario Ecclesiastico», Milano, 1898).
[17] Cfr. Serafino Ricci: «Epigrafia latina», Milano, 1898.
[18] Cfr. G. Grutero: «Corpus Inscript.».
[19] Cfr. «Catalogo dei Vescovi di Alife», ms. del Can. Iacobelli conservato in copia, presso l’Associaz. Storica Regionale di Piedimonte.
[20] Hanno parlato di questa iscrizione, oltre gli autori citati, l’Accursius, il Manutio, il Ligorio, il Pighio, il Luzac, il Romieu, il Pansa, il Pratilli, il Cappelletti, il Mommsen, l’Ughelli, il Freccia, il Ciarlante, l’Antonini, ecc. ecc.
[21] Cfr. Serafino Ricci: op. cit.
[22] Infatti il Pauly-Wissow in «Real Encyclopädia» (Neue Bearbeitung. XII Bd. Stuttgart J. B. Metzlersche Buchhandlung, 1909), non fa nessun accenno al patronato di un Fabio Massimo in Alife.
[23] Cfr. F.
Ughelli «Italia Sacra – Episc. Alif.».
[24] Cfr. M. Freccia: «De Subfoedis.».
[25] Cfr. G. V. Ciarlante: «Memorie Historiche del Sannio», Isernia, MDCXXXXIV.
[26] Cfr. N. Giorgio, e Gianfrancesco Trutta: op. cit.
[27] Così il Trutta chiama l’Ughelli, il Freccia, ed il Ciarlante.
[28] Cfr. G. Antonini, nella seconda lettera all’Egizj.
[29] Cfr.
Gianfrancesco Trutta: op. cit.
[30] Così l’illustre archeologo Sen. Prof. Giulio De Petra ad un mio quesito.
[31] Così l’illstre autore del «Dizionario Epigrafico delle Antichità romane», prof. Ettore De Ruggiero, ad altro mio quesito.
[32] Cfr. Arturo Sambon: «Les Monnais antiques de
l’Italie», Paris, 1906.