Home page                                    Antonio Manzo

 

 

CON TITO LIVIO NELLA REGIONE ALIFANO-MATESINA

DURANTE LA SECONDA GUERRA SANNITICA

 

del Prof. Antonio Manzo

 

 

Ci accingiamo a prendere in esame i momenti più significativi della seconda guerra sannitica, nel corso della quale molte azioni belliche, ed a volte di grande rilievo, ebbero a svolgersi nella nostra zona, la cui roccaforte era costituita dal Matese, Tifernus mons.

È nostro intendimento, pertanto, far rivivere luoghi, fatti e persone che ebbero rilevanza nel Sannio alifano durante l’aspro conflitto svoltosi nell’arco di tempo che va dal 326 al 304 a.C.; come pure lumeggiare il racconto liviano con osservazioni, che possono essere fatte solo quando si affronta un capitolo di storia locale. E specialmente precisazioni di ordine geografico fanno pensare a Livio come ad uno che scrivesse ben conoscendo i luoghi. Mentre poi accettare l’inquadramento territoriale della seconda guerra sannitica come vogliono storici di chiara fama (Mommsen, Pais, Pareti) significa andare lontano dal vero, sono invece degni di ricordo e di lode, per gli opportuni chiarimenti e correzioni, studiosi della zona, come D. Marrocco, G. Verrecchia e E.D. Petrella.

Fin dal 341 i Romani avrebbero toccato la regione matesina e seguirono, presumibilmente, la linea Aufidena-Aesernia-Bovianum-Saepinum-Maleventum per raggiungere Capua movendo dai Marsi e dai Peligni[1]. Ma è una tradizione assai discussa quella che parla di una prima guerra sannitica, combattuta fra il 343 e il 341. Di contro, il sanguinoso conflitto con i Sanniti ebbe inizio quando i Romani assediarono Neapolis, che presto si arrese e fu ammessa nell’alleanza romana con vantaggiose condizioni, e quando strinsero alleanza con gli Apuli, che avevano risentito il pericolo dell’espansione sannita. Tale alleanza era resa efficace da una precedente alleanza con i Frentani, abitatori del litorale adriatico a Nord del Gargano: per essa le legioni romane avevano libero transito attraverso il paese dei Frentani e potevano operare la loro congiunzione con gli Apuli, minacciando i Sanniti da Sud-Ovest.

Nel 326, primo anno di operazioni contro i Sanniti, i Romani conquistano Allifae (Alife), Callifae (Calvisi?) e Rufrae (Presenzano o, fors’anche, Raviscanina) con una marcia che essi fecero verso Oriente, movendo da Fregellae (Ceprano)[2]. Non è mancato chi, come il Burger[3], ha sostenuto che i Romani si limitarono a devastare l’ager Allifanus, basandosi sul fatto che Livio[4] pone nel 310 (secondo la cronologia varroniana, accolta da Livio; 312 secondo la cronologia dei Fasti Triumphales Capitolini) la conquista di Allifae: ma nel 321 (anno della ignominia delle Furculae Caudinae) Allifae è di nuovo in mano sannita, per cui bisognerebbe pensare che a Livio sia sfuggita tale riconquista[5]. Il piano dell’azione bellica dei Romani, per altro, induce ad accettare il loro possesso di Allifae: da qui essi guardano il Matese ed intendono puntare su Bovianum[6], onde penetrare nel cuore del Sannio, anche se in quel momento Marsi, Marrucini, Peligni ed altre popolazioni della zona impegnano le forze romane. Una cosa è certa, i Romani non abbandonano lo scacchiere alifano-matesino perché ne hanno compreso l’importanza: qui vi si porta ora il dittatore Papito Cursore con Q. Fabio Rulliano magister equitum, sostituendo il console Furio Camillo ammalato[7].

È intenzione dei Romani investire il massiccio del Matese sviluppando un’azione che s’esprime ora come tentativo di superamento frontale ora come investimento dal Sud. Ed anche “nuovi problemi militari si presentarono ora ai Romani, costretti a combattere un nemico che conduceva una guerra di insidie e di posizione nelle mille fortezze naturali che il suolo gli offriva. Le legioni furono addestrate alla guerra di montagna in manipoli”[8]. I Sanniti però, resistendo sulla fronte del Tamaro, ottengono anche l’effetto di fare opera di copertura alla regione apula.

Il 325 ed il 324 sono anni di relativa calma; nel 323 i Sanniti si danno da fare, e perché mal sopportano l’alleanza romano-apula e perché, con sagace azione politica, hanno legato alla loro causa una parte degli Apuli. I Romani sono guidati dal console Q. Emilio, ma le difficoltà, che il Matese presenta, precludono qualsiasi svolgimento di azione tattica. Anche Livio[9], rilevata la incertezza degli annalisti, crede verisimili movimenti di disturbo, con devastazioni ed incendi, che fruttarono ai Romani abbondante preda. In tal modo si troverebbe anche un punto di concordanza fra la tradizione annalistica e i Fasti, sia Triumphales sia Consulares, che annoverano il trionfo sui Sanniti dell’altro console del 323, Papirio. Altrettanto si ebbe nel 322, con il trionfo sui Sanniti del console Fabio Massimo. Non può pertanto parlarsi di guerra vera e propria; ed è stato il Matese, con le sue intrinseche difficoltà, a stroncare l’offensiva romana, impedendo sia un’azione frontale sia l’aggiramento delle posizioni.

Con visione realistica dello stato delle cose, i consoli del 321, Sp. Postumio Albino e T. Veturio Calvino, per quanto fautori in Roma di un’azione a fondo contro i Sanniti, depongono l’idea di un attacco frontale del massiccio matesino e credono opportuno insistere nell’opera di aggiramento dal Sud. Ma anche in questo frangente i Sanniti ebbero buon gioco: minacciarono la città di Luceria, caposaldo romano in Apulia, che i consoli Postumio e Veturio s’affrettarono a soccorrere, passando per la via più breve, ossia attraverso il Sannio. La colonna romana, presso Caudium, si trovò chiusa in un angusto fondovalle, mentre le alture tutt’intorno erano occupate dai nemici e potentemente fortificate con trincee ed altre opere intese non solo a precludere ai Romani la via dell’Apulia, ma ad agevolare anche un’azione campale contro di essi. I legionari romani dovettero consegnare le armi e passare sotto il giogo; i consoli si impegnarono a far sgombrare le colonie di Fregellae (Ceprano) e di Cales (Calvi), da poco costituite, consegnando come garanzia 600 ostaggi.

Coscritte nuove legioni e affidate ai consoli del 320, Publilio Filone e L. Papirio Cursore, i Romani riescono a rafforzare notevolmente le loro posizioni in Apulia: fu riconquistata Luceria e furono ricevute in alleanza altre città apule, come Arpi e Canusium. Nel 318, si dette a Roma anche Teanum Apulum (o Apulorum), città osca sul fiume Frento (odierno Fortore) e nel 317 fu imitata da quei popoli, sui quali esercitava un ascendente. Va sottolineato che i Sanniti non seppero, o non poterono, sfruttare il successo conseguito a Caudium: G. De Sanctis[10] e G. Beloch[11] attribuirono a fattori di ordine politico la singolare inazione dei Sanniti. “Vorremmo pensare – rileva opportunamente E.D. Petrella[12] che la Confederazione, mancante di una stretta unità, quindi di un’unica finanza e di un unico comando di guerra, fosse nel suo particolarismo alquanto indebolita, specie ora che il reclutamento dei mercenari importava spese sempre maggiori e più vive”. Roma, di contro, vittoriosa nel settore del Liri, era di nuovo penetrata nel Sannio, portando le sue legioni oltre la linea del Volturno, e attanagliava i suoi nemici in una morsa che stringeva premendo sulle direttrici di Allifae e di Luceria.

Seguono azioni dei Sanniti nel paese degli Aurunci, dove essi scesero in forze, li indussero alla ribellione contro Roma e mossero poi verso Terracina, interrompendo quasi completamente le comunicazioni tra il Lazio e la Campania. Fu nominato un dittatore Q. Fabio Rulliano, che si scontrò con i Sanniti al passo di Lentulae, presso il lago di Fondi, e fu sconfitto. L’anno appresso, il 314, si ristabilì un certo equilibrio fra i contendenti, determinato ad un tempo da una più energica azione romana e da una meno decisa condotta bellica dei Sanniti. Per quanto sul principio l’esercito sannita abbia potuto annoverare qualche notevole successo, quando scese in campo aperto viene sconfitto su tutta la linea ai Campi Campani, località indicata da Livio come planites quae Capuam Tifataque interiacet (7, 29, 6) e si salva ritirandosi a Maleventum[13]. Quivi la resistenza sannita fu fiaccata dalle legioni dei consoli C. Sulpicio Longo e M. Petelio Libone, che nell’inverno del 314-13 riprendono offensiva contro Bovianum, raggiunta dai Romani valicando il Matese, presumibilmente, per l’antica pista delle greggi Alife-Castello-S.Gregorio-Lago-Perrone-Guardiaregia[14]. E così passò l’inverno: i consoli del 313, L. Papiro Cursore e C. Giunio Bubulco, cedono il comando dell’esercito al dittatore C. Petelio (padre o parente del console M. Petelio), che continua l’assedio di Bovianum. Codesta è la tradizione accolta da Livio[15] e non sappiamo con quanta verisimiglianza ritenuta inventata da G. De Sanctis[16]. Livio, infatti, ci fa sapere che i Sanniti premono sul fronte occidentale, per cui l’esercito romano si porta alla volta di Fregellae, mentre per il De Sanctis tale località era in mano sannita fin dalla pace seguita all’evento di Caudium. È pensabile che l’azione romana si esplicò dapprima sul fronte occidentale e di poi il dittatore, reduce da Fregellae, senza insistere troppo nell’assedio di Bovianum, pensa bene di operare nell’agro campano, arrivando ad assediare Nola che fin dal 327 era in armi contro Roma. L’azione dovette sembrare opportuna anche al console Giunio Bubulco, che partecipa all’occupazione di Nola, e quindi di Atina, verisimilmente l’omonima cittadina di provincia di Frosinone e perciò anche l’Atina potens ricordata da Virgilio[17], e di Calatia, località campana a Sud di Capua e corrispondente alla odierna Le Galazze, fra Caserta e Maddaloni.

L’occupazione di codeste due città è molto importante: la prima è sulla strada tra Fregellae e Bovianum; l’altra nei pressi di Caudium, sita verisimilmente dove oggi sorge Montesarchio. I Romani sono, pertanto, in grado di interrompere ai Sanniti il congiungimento tra il settore occidentale e quello orientale, avendo operato una frattura del loro fronte. Per tali azioni belliche Boviuanum ebbe un po’ di respiro, ma non pensiamo fosse libera, posto che un console del 312, M. Valerio Massimo, è ricordato nei Fasti Triumphales per la vittoria De Samnitibus conseguita presumibilmente nella nostra regione. Tanto più che Giunio Bubulco, uno dei consoli dell’anno successivo, si trova ad operare a Cluvia e a Bovianum.

Livio ci fa sapere che i Sanniti avevano stretto d’assedio il presidio romano di Cluvia[18] e avevano accettato la capitolazione per fame del presidio romano: avevano poi straziato in modo atroce a colpi di verghe ed ucciso quelli che, per aver salva la vita, si erano arresi[19]. Il console Giunio Bubulco, indignato per tale crudeltà, ritenne che nulla dovesse stare più a cuore dell’espugnazione di Cluvia: la prese d’assalto e mise a morte tutti gli uomini adulti. Pagano così il fio del sangue dei Romani, che invano si erano affidati alla loro lealtà. Vincitore, muove alla vola di Bovianum: l’oppidum era longe ditissimum atque opulentissimum armis virisque[20] ed anche per questo i legionari romani corrono ad impadronirsene, spinti da ira e sete di vendetta, ma ancor più da speranza di ottima resa. Si trattava, forse, del primo bottino cospicuo raccolto in una regione montuosa e poco produttiva; come pure, meritavano finalmente questi soldati qualcosa di più della laudatio del duce: e Livio qui riferisce un fatto inusitato: tutto fu concesso ai soldati, e neppure una parte del bottino fu concessa – com’era consuetudine – al tempio di Giove Capitolino o al pubblico erario.

Visto che nulla riesce a validamente opporsi alla potenza delle armi romane, i Sanniti ricorrono all’arma dell’insidia e si impegnano a cogliere di sorpresa i Romani. Livio[21] ci fa sapere di contadini e disertori che, ad arte o per caso, si trovano a riferire concordemente al console Giunio che i Sanniti avevano ammassato molto bestiame su un monte boscoso fuori di mano[22] e l’inducono a spingervi le legioni a far preda, armate alla leggera (o senza alcun impaccio di carriaggi, come traduce il Nardi expeditae). Qui, però, un forte nerbo di Sanniti aveva nascostamente occupato i sentieri del bosco, celandosi nelle loro adiacenze e nei luoghi meno accessibili della montagna: hanno così la possibilità di piombare sui Romani e di coglierli di sorpresa, ed anche sparpagliati. L’assalto improvviso li fa trepidare, almeno fin quando non riescono ad impugnare le armi,; né c’era chi potesse prendere il comando dei soldati intenti alla licentia praedandi, per cui solo spontaneamente potettero raccogliersi e ordinarsi. Sopraggiunge il console e libera i suoi da quella pericolosa situazione, dopo averli infiammati con vive e toccanti parole, facendo leva sul fatto che ormai i Sanniti non potevano fidare in qualche colpo di mano, poiché la loro situazione era, nelle armi, pressoché disperata. I Romani, allora, dimentichi del nemico che poteva da un momento all’altro irrompere dall’alto dell’altura, dove itinera occultus insederat per l’agguato, sia pure con difficoltà, raggiungono la sommità del colle che si elevava loro di fronte ed ivi prendono saldamente posizione. Agli intimoriti Sanniti non resta che la fuga, dopo essersi liberati delle armi, anche perché quei luoghi disagevoli ora rendono difficoltoso lo sganciamento: solo ad un esiguo numero s’aprì una via di scampo. Livio[23] parla, con evidente esagerazione, di 20mila morti; è vero di certo che i Romani possono ora tranquillamente far preda di quel bestiame, che il nemico per ben diverso scopo aveva radunato in quel luogo. La critica modrna mette in dubio questa vittoria romana, ammessa dia Fasti Triumphales Capitolini, che registrano per il 312 il trionfo De Samnitibus del console Giunio Bubulco, vale a dire per il 311 secondo la cronologia varroniana accettata da Livio. Diodoro Siculo[24], da parte sua, registra in Daunia l’azione dei Romani, ma questa con ogni verisimiglianza va posta nel tempo tra la presa di Cluvia ed il fatto d’arme testé riferito: il console Giunio, infatti, scende dal Matese e, oltrepassato il Frento, batte i Sanniti che avevano invaso la Daunia e Talio o Palio[25], quindi si pone sul corso del Biferno, presidia Ceraunilia (Casacalenda)[26] e risale il Matese dal versante molisano. Ma per operare con tanta disinvoltura nel cuore del Sannio dei Pentri era necessario tenere saldamente le posizioni sul lato alifano del Matese: e da qui l’importanza di Allifae, “testata di ponte contro il caposaldo tifernino, chiave delle nostre (= dei Sanniti) comunicazioni con la Campania”[27].

Nell’anno seguente, il 310, mentre il console Q. Fabio Massimo Rulliano opera in Etruria, l’altro, C. Marcio Rutilo, toglie ai sanniti Allifae e molti altri castella vicique [28]. La reazione dei Sanniti è immediata, violenta e si svolge ad ampio respiro: assalto frontale dei Pentri sulla linea di Biferno ed alle spalle dei Frentani in Apulia, combinato con azione intesa a rendere ostili ai Romani le popolazioni della zona. A ciò s’aggiunga la notizia che l’esercito di Q. Fabio è stato imbottigliato al di là della Silva Ciminia dagli Etruschi: i Sanniti s’aprono il cuore alla speranza perché già vedono qui una seconda Caudium. Attaccano perciò il console C. Marcio, che nello scontro, sfavorevole ai suoi, resta ferito: cade Allifae e sono arretrati i presidii consolari[29].

Tali avvenimenti non mancano di preoccupare il Senato romano, che decide la nomina di un dittatore nella persona di L. Papiro Cursore[30]. Viene mandata una ambasceria di consolari a Q. Fabio, per comunicargli il decreto; dopo ostinato silenzio, il console, reprimendo nel suo animo i rancori personali[31], nomina Papirio dittatore, che per il momento opera contro gli Etruschi e li vince presso il Lago Vadimone.

Ogni impegno è ora rivolto contro i Sanniti, che si preparavano alla battaglia con armi nuove e pittoresche, fra cui fanno spicco gli scudi adorni di fregi in oro ed in argento. Papirio fa rilevare ai soldati, nell’esortazione che ad essi rivolge, che quelle fulgide armi sono fatte più per ingenerare la bramosia d’entrarne in possesso come preda, che per difendere e offendere, in quanto il valore è l’ornamento di maggior decoro per il combattente[32]. I romani si dispongono in battaglia in modo che il dittatore guidi l’ala destra e il magister equitum, G. Bubulco, la sinistra: il primo urto si ha contro l’ala destra dei Sanniti, quelli dei linteati[33], ad opera di G. Bubulco. A tal vista, il dittatore, che ormai si vedeva sfuggire l’iniziativa, spinge anche i suoi nella mischia; i luogotenenti P. Decio e M. Valerio, irrompendo con la cavalleria sui fianchi dello schieramento sannita, decidono la vittoria delle armi romane ed a Papirio è decretato il trionfo De Samnitibus.

Per il 308 sono eletti consoli P. Decio Mure e Q. Fabio Massimo Rulliano: a questi, che nell’anno precedente come proconsole aveva vinto gli Etruschi presso Perusia, tocca in sorte il Sannio[34] e gli viene prorogato anche per l’anno successivo il comando delle operazioni contro i Sanniti, trovandosi in tal modo come proconsole insieme con i due consoli del 307, Appio Claudio e L. Volumnio.

Q. Fabio si scontrò con i Sanniti presso Alife, e Livio sottolinea che l’esito della battaglia si presentò subito favorevole ai Romani: dimostrarono, fin dall’inizio, la loro superiorità sconfiggendo i Sanniti e ricacciandoli nel loro accampamento, non occupato per il calar della sera. Tuttavia, per impedire ai nemici di dileguarsi col favore delle tenebre, lo circondano e lo tengono sotto stretta sorveglianza. I Sanniti, vista svanita ogni speranza di salvezza, all’alba del giorno seguente si arrendono, accettando anche condizioni piuttosto umilianti. Ricordando ancora, e soffrendone come per ferita che non si rimargina, l’onta di Caudium, i Romani lasciano liberi i Sanniti dopo che, con una sola veste per ciascuno, sono passati sotto il giogo. Sul momento, non fu preso alcun provvedimento al fine di garantire l’incolumità degli alleati dei Sanniti: non furono, cioè, risparmiati, e circa 7mila furono venduti come schiavi; quelli, invece, che dichiaravano di essere Ernici, vennero trattenuti a parte, in quanto spettava al Senato decidere sulla sorte degli alleati che si ribellavano a Roma[35].

La vittoria di Q. Fabio sui Sanniti, presso Allifae, non è da tutti accettata[36] e perché non risulta nelle fonti migliori e perché è resa sospetta dalla situazione militare dell’anno seguente. È vero che nessuna delle tribù ribelli si mostrò disposta a sottomettersi a Roma e che, sul principio del 306, Sora e Calatia, in mano romana da sei o sette anni, caddero nuovamente in mano dei Sanniti, ma son fatti, codesti, che ci portano a riconoscere e a sottolineare la combattività fiera e puntigliosa di questo popolo: i Sanniti, montani atque agrestes [37], erano duri a cedere e da una sconfitta, più che domi, erano spinti a lottare con rinnovato impegno, ben consci che lo scontro era all’ultimo sangue e che la posta in gioco era la libertà. Per questo anche infieriscono contro i presidi romani, come a Sora e a Calatia, in soccorso dei quali marcia P. Cornelio Arvina, console insieme con A. Marcio Tremulo per il 306; presto, però, viene a trovarsi in una situazione difficile, in quanto i Sanniti interrompono ogni via di comunicazione e di rifornimento per il suo esercito. Accorre A. Marcio, vincitore degli Ernici, ma viene assalito dai Sanniti nei pressi dell’accampamento di P. Cornelio, che movendosi tempestivamente con i suoi riesce a chiuderli in mezzo: i Sanniti sono quindi sconfitti; il loro accampamento è preso e dato alle fiamme[38].

I Romani hanno così mano libera: possono distruggere ed incendiare senza incontrare resistenza[39], ma il Sannio non si arrende. Anzi, sul principio del 305, sono ancora i Sanniti a prendere l’iniziativa: dai nostri monti, verisimilmente, fanno irruzione in quella parte del territorio campano che si stende a Sud di Cales (Calvi), dalla riva destra del Volturno fino a Sinuessa, da Livio denominato Campus Stellatis [40]. Diviene, così, nuovamente precaria la situazione dei Romani ed entrambi i consoli sono inviati nel Sannio: L. Postumio marcia verso il caposaldo Tifernum [41] e Minucio alla volta di Bovianum.

Livio registra due versioni, in contrasto fra loro, circa l’esito dello scontro nei pressi di Tifernum: di quelli che parlano d’una piena sconfitta dei Sanniti, con 20 prigionieri, e di quelli che ricordano una battaglia senza vinti né vincitori (Marte aequo). Da quel che segue è più probabile la seconda versione dei fatti: il console Postumio, facendo credere d’essere rimasto abbastanza provato dallo scontro, guida i suoi soldati sui monti, marciando di notte e non tanto nascostamente, da sfuggire alla attenzione nemica. I Sanniti, infatti, lo seguono e si accampano a due miglia di distanza da lui, in una località che può benissimo porsi sul Matese, individuabile come la piana centrale fra S. Maria e Campo Maiuri (Marrocco). Il piano di Postumio mira a far intendere ai suoi avversari che egli ha voluto cercare un posto sicuro e ricco di risorse per accamparsi, onde potervi restare a lungo, come pure che teme di ingaggiare un nuovo combattimento: solo così può mettere in atto il suo vero intendimento, di ricongiungersi col collega.

Dopo che ebbe rafforzate le difese dell’accampamento con i dispositivi più idonei, lascia quivi un saldo presidio e, nelle ore che vanno dalla mezzanotte alla tre del mattino, per la via più breve, guida i suoi senza bagagli alla volta di Minucio, che si trovava accampato di fronte ad un altro esercito sannita. A questo punto Minucio, seguendo il suggerimento di Postumio che aveva ordito il piano, attacca i Sanniti ed il combattimento si protrae incerto per buona parte della giornata: a momento opportuno, interviene Postumio con le sue truppe fresche, perché si erano tenute nascoste ed al riposo, ed irrompe sulla schiera nemica, già ridotta a mal partito e tanto prostrata, da non darsi neppure alla fuga per salvarsi. Grande è la strage ed ingente il numero di prigionieri, che sarebbero stati più di 2mila[42]: ai Sanniti furono strappate anche 21 insegne. Senza interporre sosta all’azione, i due consoli puntano verso l’accampamento, che Postumio aveva lasciato, per dare battaglia a quei Sanniti, che si trovavano lì nei pressi: ed hanno facilmente ragione di tali uomini, già sbigottiti per aver appreso la sconfitta dei commilitoni presso Bovianum. Furono prese ai Sanniti 26 insegne ed insieme con molti altri cadde in mano romana il generale avversario, Stazio[43], o Gaio[44] Gellio, uno dei pochi personaggi sanniti di cui sia sopravvissuto il nome.

Il giorno dopo fu investito Bovianum, che in breve capitolò: fu un grande successo militare, per il quale – riporta Livio[45] – i consoli trionfarono. I Fasti Triumphales Capitolini registrano per il 306 (= 305 secondo la cronologia varroniana e Livio) il trionfo De Samnitibus di M. Fulvio Corvo Petinio, consul suffectus in luogo di Minucio, che avrebbe trionfato il 5 Ottobre del 305 (= 304): ciò è chiarito da quanto Livio stesso riporta più avanti[46]. Registra, infatti, un’alta versione, in base alla quale taluni auctores sostengono che Bovianum sarebbe stata occupata da M. Fulvio, che sostituì Minucio nel comando dell’esercito, essendo questi morto subito dopo il combattimento per grave ferita riportata. È certo, comunque, che con la caduta di Bovianum ha praticamente termine la seconda guerra sannitica e sotto il consolato di P. Sulpicio Saverrione e P. Sempronio Sofo, nel 304, i Sanniti mandano a Roma per ottenere la pace. Durante le trattative l’esercito di P. Sempronio attraversa il Sannio a scopo di ricognizione, rifornito largamente di vettovaglie dalle popolazioni della zona.

Si conclude così, con la riconciliazione dei due avversari, un conflitto lungo, cruento e aspramente condotto. Ai Sanniti vengono offerte le medesime condizioni che avevano già avute al principio della guerra contro Roma, nel 326 ed in base al trattato i popoli romano e sannita vengono lasciati sul piano della più perfetta parità, anche si i Sanniti furono privati dello Oltre-Volturno; nulla di preciso abbiamo in merito ad Allifae, sentinella avanzata del Tifernus mons.

 

Home page                                    Antonio Manzo

 

 

 



[1] Al riguardo vd. Petrella: “Le guerre sannitiche nella Pentria meridionale” in Samnium 1938, p. 138 e Livio (8, 6, 6); di contro, Dionigi d’Alicarnasso (15, 4, 9-12) fa procedere l’esercito romano lungo la costa tirrenica.

[2] Vd. Livio, 8, 25, 4.

[3] De bello cum Samnitibus secundo. Harlemi, 1884, p. 32.

[4] 9, 38, 1.

[5] Non deve però tacersi un particolare: Livio, quando parla della occupazione del 326, scrive: tria oppida in potestatem (scil. Romanorum) venerunt, Allifae etc., mentre per quella del 310 si serve dell’espressione: C. Marcius Rutilus Allifas de Samnitibus vi cepit e dopo soggiunge: multa alia castella vicique aut deleta hostiliter aut integra in potestatem (scil. Romanorum) venere. È lecito pensare che lo storico romano abbia voluto esprimere, con vi capere e in potestatem venire, due diverse idee, quanto meno sottolineare una sfumatura differenziante.

[6] È la capitale dei Pentri, corrispondente alla odierna Boiano; precisazione non inutile in quanto nel Sannio esisterebbero due Bovianum: ce lo fa sapere Plinio: colonia Bovianum vetus (Pietrabbondante) et alterum in cognomine undecimanorum (Nat. Hist. 3, 12): fu colonizzata, infatti dai veterani della XI legione in età imperiale.

[7] Vd. Livio, 8, 99, 8 sgg.

[8] G. Pugliese Carratelli – G. Giannelli, Storia Universale, vol. I, parte II, Milano, 1959, p. 256.

[9] 8, 37, 4.

[10] Storia dei Romani, Torino, 1907, vol. II, p. 318.

[11] Storia Antica, Roma, 1911, p. 127.

[12] A. c., p. 145.

[13] Vd. Livio, 9, 27, 14.

[14] La strada sul Matese venne individuata dall’archeologo Maiuri nel 1929 e riferibile ad un tratturo non anteriore al primo secolo dell’Impero. Una sostenibile ipotesi è oggi avanzata da D. Marrocco (Piedimonte, Napoli, 1961, p. 48) circa una preesistenza della strada del primo secolo dell’impero, con una pista almeno. “Né doveva, questa, avere solo carattere economico – continua D. Marrocco – possibile che durante 35 anni di guerra sul Matese, col continuo pericolo di perdere il massiccio, i Romani non abbiano adattato una strada? Era la prima cosa che i legionari romani facevano e dovunque: perciò una strada doveva esistere almeno dal quarto secolo, altrimenti sarebbe stato impossibile condurre migliaia di uomini tante volte sulle montagne ad accamparsi, a raggiungere presto il cuore del Sannio: nessun generale, anche se non deterritus iniquitate loci (Livio, 10, 30), avrebbe menato allo sbaraglio migliaia di giovani sulle rupi e tra le forre del Matese”.

[15] 9, 28, 1 sgg.

[16] O. c., vol. II, p. 324.

[17] Aen. 7, 630.

[18] Non ci è noto dove fosse ubicata: il racconto liviano la fa pensare non lontana da Bovianum, in quanto il console romano, subito dopo la sua espugnazione, condusse l’esercito all’assedio della capitale dei Pentri. È stata collocata, tuttavia, ora a Melito, in provincia di Avellino (Pecori), ora a Monte Chiodi, denominato anticamente Monte Giove (Romanelli, Corcia): vd. al riguardo A. M. Iannacchino, Topografia storica dell’Irpinia, Napoli 1889, vol. I, p. 179 sgg. Per G. Verrecchia Cluvia, “quell’abitato di non grande entità, ma posto in posizione strategica di grande importanza, si trovava sulla via che menava dalla Campania a Boiano dei Pentri” (vd. in “Samnium” 1957, p. 55); ma per valicare il Matese da Alife a Boiano – nota opportunamente D. Marrocco (o. c., p. 45) – non esiste che una strada fino a San Gregorio che diverge per il Raspato e Pretemorto; dal lago, poi, si può avanzare o per l’Esule e Campitello (sentiero centrale) o per Séccine e Roccamandolfi, portandosi alla sinistra di Monte Miletto, o per il Perrone e Guardiaregia, procedendo a destra di Monte Gallinola, seguendo la pista delle greggi. Non potendo, perciò, sorgere distante dalla direttrice Alife-Boiano, è da escludere che ci si possa riferire all’abitato megalitico di Letino e bisogna pensare o a Piedimonte-San Giovanni o a Castello o a San Gregorio o a Cila, senza voler pretendere – conclude D. Marrocco – di precisare ulteriormente; come invece ha voluto fare G. Verrecchia, sostenendo che “il nome Cluvia, dunque, va dato a Castello d’Alife, e comprende anche tutto il territorio di S. Gregorio con la sella di S. Croce” (vd. in “Samnium” 1957, p. 182).

[19] Vd. Livio, 9, 31, 2.

[20] Vd. Livio, ibid. 4.

[21] Vd. 9, 31, 7.

[22] Pecoris vim ingentem in saltum avium compulsam esse. Non siamo contrari a pensare l’ubicazione del saltus avius sul Matese, di cui Livio sottolinea l’iniquitas loci (10, 03), e non nell’avellinese (Pais).

[23] 9, 31, 16.

[24] 20, 26.

[25] La località è indicata come Τάλιον da Diodoro, l. c., e così accettata da G. De Sanctis (o. c., vol. II, p. 325); dal Pais (vd. “Studi Ital. Filol. Clas.” 1893, vol. I) è corretta in  Μάλιον.

[26] Così ritiene il Klimke (“Der zueite Samniterkrieg”. Königshutte, Halle, 1876, p. 13).

[27] Così E. D. Petrella, a. c., p. 150.                                                                             

[28] Vd. Livio, 9, 38, 1.

[29] Vd. Livio, 9, 38, 6.

[30] Il 309, anno dittatoriale, è omesso dalle fonti annalistiche, come del resto anche gli altri tre anni dittatoriali 333, 324 e 301. Vd. G. De Sanctis, o.c., vol. I, p. 3.

[31] Livio sottolinea i due opposti sentimenti, che agitavano l’animo del console Fabio: da una parte, odiava Papirio, che nel 325 aveva sentenziato la morte contro di lui, per avere di suo arbitrio assalito i Sanniti, e fu salvato dalla pena capitale grazie alla simpatia e alla proteste del popolo; dall’altra, riconosceva in Papirio l’unico che potesse reggere con successo le sorti dello Stato in simile frangente.

[32] Vd. Livio, 9, 40, 1-6.

[33] Così detti perché le tuniche dei soldati armati di scudi fregiati in argento erano di lino bianco, mentre le tuniche che indossavano i soldati con gli scudi a fregi d’oro erano di colori screziati.

[34] Circa la cronologia liviana va precisato che lo storico romano non ha computato l’anno 309, nel quale, secondo i Fasti Consulares, si ebbe la dittatura di Papiro Cursore senza consoli, mentre Fabio, in qualità di proconsole, continuò a tenere il comando delle operazioni contro gli Etruschi. Ciò posto, fra due consolati di Fabio vi sarebbe stato un anno di intervallo, da Livio non computato, venendosi così a trovare in ritardo di un anno rispetto ai Fasti. Ed ancora: la elezione di Fabio per il 308 comportò una particolare procedura: prima che fosse eletto, il popolo dovette decretare una deroga alla legge, in base alla quale, fra due consolati di una medesima persona, dovevano trascorrere almeno dieci anni.

[35] Per questo fatto d’armi, vd. Livio 9, 42, 6 sgg. Riguardo agli Ernici, di stirpe sabina, erano stati alleati di Roma fino all’invasione gallica, ma poi, ribellatisi, furono sconfitti nel 358 ed ora, nel 307, li troviamo uniti ai Sanniti spinti dalla speranza di recuperare la libertà perduta.

[36] Così, per es. G. De Sanctis (o. c., vol. II, p. 335).

[37] Livio, 9, 13, 7.

[38] Vd. Livio, 9, 43 e Diodoro, 20, 73.

[39] Vd. Diodoro, 20, 80, 2.

[40] 9, 44, 5.

[41] Il termine liviano è poco chiaro: si riscontra due volte nel IX libro (44, 6), con presumibile riferimento ad un oppidum ed altrettanto fa pensare un primo riferimento del X libro (14, 6), dove si parla di “una valle nascosta nei pressi di Tiferno” nella quale i Sanniti erano appostati, mentre un altro (30, 7) indica il massiccio del Matese ed un terzo (31, 12) è generico. G. Verrecchia pensa ad un oppidum e precisa che “nel complesso della narrazione liviana emerge che Tifernum fosse a sud del massiccio, nel territorio delimitato dal corso del Volturno medio, del Calore inferiore, nel sito, specifichiamo noi, in cui ancora sulla china di monte Acero si vedono le mura megalitiche” (così in “Samnium” 1957, p. 70). Né è mancato chi ha ritenuto Tifernum un passo (Pais) e chi ne ha parlato ora come di un fiume ora come di una città (Mommsen). Forse, però, è conveniente non cercare di precisare troppo, considerati gli scarsi elementi di giudizio, e tener solamente presente che il console Postumio, già quando marcia su Tifernum, ha in animo di congiungersi con il collega Minucio, per cui non avrebbe puntato su un oppidum troppo lontano dalla direttrice Allifae-Bovianum.

[42] Vd. Diodoro, 20, 90.

[43] Così Livio, 9, 44, 5.

[44] Così Diodoro, 20, 9, 3.

[45] 9, 44, 14.

[46] 9, 44, 15.