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Testa di Venere,
reperto dalla necropoli a S. Gregorio Matese (di Domenico Loffreda)
Anche così
ridotto, il reperto si fa ammirare per la classicità della forma e della
struttura, e per la sua unicità tra gli oggetti museali
in area alifana. Vi sono altre teste femminili che attraggono per i caratteri
che le distinguono, più vicine idealmente, forse, ai prototipi femminili
sanniti che le hanno ispirate, come la testa che riproduco
dal Quaderno, la quale appartiene
allo stesso gruppo di reperti alifani, pure esso
presso il Museo Archeologico di Napoli, dove si conserva. E’ auspicio che
tutti ritrovino, quanto prima, sistemazione idonea e,
soprattutto, sicura, nella sede originaria di Piedimonte Matese o nel nuovo
museo ad Alife.
Oltre la scarna
classificazione e misure, della testa della Venere si sa solamente che è stata
rinvenuta a S. Gregorio Matese. Dove? Alla Serra S. Croce il luogo della
necropoli? Nei pressi della cappella, già restaurata, una prima volta, nel
1709? Nella valle di Nocennole? O,
altrove? Ciascun luogo suggerirebbe risposta diversa. Se
fosse stata trovata nei pressi della cappella, si sarebbe potuto pensare ad una
scelta di quell’altura, per porvi un sacello,
quale da sempre area votata al sacro. Ma non escluderei la necropoli come luogo
del rinvenimento: quell’importante residuo, se
la stutua era andata distrutta, è possibile che si sia voluto deporlo nella tomba d’un caduto di alto
rango. Se ritrovato in altra area, si potrebbe congetturare anche la esistenza remota di un luogo abitato.
Come che sia, si può fare qualche
supposizioni, non più di tanto.
Si può leggere nell’usura del marmo
quali siano stati gli agenti che hanno deturpato il naso, la bocca e il mento,
e quale oggetto contundente abbia scheggiato il capo
al disopra della fronte, interrompendo la stretta fascia che trattiene i capelli, cerchiati a loro volta da corona d’alloro,
mossi ma accortamente raccolti sulla nuca, lasciando scoperto mezzo orecchio.
Nell’insieme, volto e capo si ammirano con
piacere. La struttura e la compostezza classica sono
molto evidenti. Quel volto, molto probabilmente, è quel che ci rimane di una
statua del periodo aureo della scultura greca, o di una copia in marmo di epoca imperiale: in questo caso andrebbe escluso
il rinvenimento in una delle tombe della necropoli.
La ricomposizione del viso operata dal mio
giovane nipote Andrea, studente liceale, così come poteva, su
quello butterato dal tempo, sembra darci la verosimile immagine di quel
volto.
All’altra domanda, quando la statua
della Venere sia potuta giungere sul monte, probabilmente è più facile rispondere
con una certa attendibilità, conoscendo dei Sanniti la mobilità di portarsi non
solo nelle non lontane località campane, già ricche di ogni
arte ellenica, ma fino in Sicilia che ne era ancora più ricca. Da quelle
lontane campagne militari, riportare compensi e prede o un acquisto, non doveva
essere una novità. Quella statua poteva essere o l’una cosa o
l’altra o altra ancora, ossia la scelta di un comandante che abbia voluto portare con sé, alla casa sui monti, il ricordo
d’un oggetto sacro, artisticamente bello. Non una statua qualsiasi, ma
quella di Venere, che è la dea più nota e la più vicina al cuore d’ogni
uomo e di ogni donna.
Una Venere, statua di marmo, a fresco, olio
su tela, ed ogni altra tipo di riproduzione, si associa all’idea del bello femminino, che è fascino, attrazione, piacere e
bellezza. Perché la dea non avrebbe dovuto fare
volgere a sé, per il piacere del bello, lo sguardo anche dei Sanniti, anzichè sempre e solamente ai loro belli ed aspri monti e
alle armi?
E’
quanto può essere detto da un non esperto, ma che guarda e gode .
Anche la testa
della Venere ha bisogno d’altro studio più professionale ed
accurato.
Domenico Loffreda
27 giugno 2000
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