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DETTI E PROVERBI DI VALLE AGRICOLA
RACCOLTI E TRASCRITTI.
di Luigi
Cimino
Alla
memoria di mia madre, Lidia, unica e vera trasmettitrice dei valori valligiani
del piccolo centro di Valle Agricola, con profondo affetto e riconoscenza.
Per
conoscere le tradizioni, gli usi e le consuetudini di un popolo, è utile, tra
l’altro conoscere i proverbi e detti che rappresentano l’entroterra culturale e
sociale di un popolo, tanto più importanti in quanto ne svelano, in sintesi, la
cultura affermata per secoli e,quindi, di
insegnamento popolare.
Ne ho raccolto alcuni per rappresentarne la loro peculiarità ed il
significato più profondo, pregni di insegnamenti universali, anche se
localizzati nel piccolo centro di Valle Agricola a significare che anche la
cultura “particolare” ha valori sentiti
da ogni uomo.
1)
“Quannu vota gliu fumu agli
Purcini,/ piglia la rocca e fila;
Quannu vota alla Rava/ piglia gli
panni e va ‘a làva”.
La traduzione in italiano deve tener presente i
toponimi compresi nel proverbio: “Purcini”, località
Porcini alla via Santa Lucia di Valle Agricola (zona a nord-est del centro
urbano di Valle Agricola) e “la Rava” è il fosso della “Rava” o “Rave Secca”, posto a sud-ovest del
centro abitato.
Perciò: “Quando il fumo dei camini va verso o si
rivolge alla località “Purcini”, non uscire di casa, ma prendi il bandolo e fila; quando, invece, si
rivolge al fosso della “Rava” prendi i panni da lavare e va a fare il bucato.
Nel primo caso piove ed è cattivo tempo, nel secondo caso il tempo
volge al bello e si può andare a lavare lungo il torrente della Rave, senza
paura che possa piovere.
Il verso del fumo e le due località indicate
fungevano da barometro a rilevare il cattivo o buon tempo.
2)
“Ogni annu nun fa rannu,/
Ogni mese nun porta spesa,/ Ogni iuornu
è male iuornu”.
“(L’ospite) ogni anno non arreca danno, ogni mese non grava
di spesa, ogni giorno è cattivo giorno”.
Questo
detto insegna che l’ospite che viene una volta l’anno è gradito e ben accetto;
anche chi viene una volta al mese non grava sulla
spesa; che però viene ogni giorno ti rende il giorno brutto ed invivibile:
E’ come dire che
il “petulante”, anche nelle visite, ti infastidisce e
ti rende buia la giornata, fardello che non può sopportarsi.
3)
“Gliu pezzente che vè spissu/ Te vò
verè peggiu r’ issu”.
“Il povero che
viene spesso, ti vuol vedere peggio di lui”.
C’è un intento
di avvilente persecuzione nel povero che non tralascia mai di farti visita,
anzi ogni occasione è buona per lui per importunarti. Non perché ha bisogno, ma
per “rovinarti” e trascinarti nella sua stessa condizione di bisogno. Per
invidia o per
cattiveria.
4)
“Vennu tutti ra mete/ e nisciunu ra scugnà”.
“Vengono tutti
da mietere e nessuno da “battere il grano” o “trebbiare”.
Come a dire:” Sono tutti stanchi per il lavoro, ma nessuno porta il
grano utile al bisogno ed a far passare la fame”.
Infatti, sinonimo di
"trebbiare" è "battere" il grano.
Questo deriva dal fatto che le primitive
operazioni di separazione dei chicchi avvenivano per mezzo di
una vera e propria battitura degli stessi con dei bastoni. Si tratta del
"correggiato", uno strumento composto da due
parti in legno, collegate da una funicella, delle quali l'una, più lunga e
sottile, costituisce l'impugnatura, mentre l'altra, più massiccia, è la parte
utensile, quella cioè che con un movimento di rotazione si va ad abbattere
sulle spighe, frantumandole, e facendone fuoriuscire i semi.
Il proverbio insegna che tutti sanno
lamentarsi per il duro lavoro che hanno fatto, ma nessuno vanta di aver
prodotto beni, tanto da portarne una parte.
5)
“Puozzi ‘mpiccià/ a nu filu re paglia”.
“Possa tu inciampare vicino ad un filo di paglia (in modo da
cadere)”.
Questo detto che appare surreale, in
realtà è realissimo.
Basterà
fare mente locale per capire che è sufficiente una piccola distrazione per
cadere, scivolare od inciampare, anche senza urtare
alcunché;
immaginate se doveste
urtare od inciampare ad un filo di paglia che piccolo e basso com’è vi fa perdere
l’equilibrio e vi fa cadere senza potervi salvare od attaccare ad un supporto.
Non ne avreste né il tempo né la possibilità, data la repentinità
dell’accaduto.
E’
per tale motivo che questa espressione diventa anche una forma di improperio e di male augurio nei confronti di persona che
non si può vedere e che si vuole vedere “caduta a terra”, semmai con qualche
“lesione”, senza peraltro averla provocata e, quindi, senza colpa, se non con
il pensiero.
6)
““Ricette la crapa:” Poca fronna
a me,/ pocu latte ai crapitti””
“”Disse la capra:
”Poco fogliame a me, poco latte ai capretti”.
Ricco di profondo significato è il senso di questo
proverbio, come a dire, “se vuoi che ti renda molto, trattami bene, dammi quel
che mi spetta ed è necessario”.
Oppure “non si può pretendere da me la resa se non
mi metti in condizioni ottimali di produrre”.
Com’è attuale questo detto, come si attaglia bene
anche alla società moderna ove sembra che tutto ci sia
dovuto e nulla dobbiamo, dove esistono soltanto diritti, ma pochi o nessun
dovere.
Non è così, perché siamo legati tutti da un’osmosi
vitale del dare ed avere che ci unisce tutti e che ci
condiziona sia positivamente che negativamente e non ammette surrogati di
sorta.
E’ la vita sociale consolidata che porta a tale
conclusione. “L’uomo non è un’isola”.
7)
“Gl’asinu
piccirigliu / pare sempe staccunciegliu”.
“L’asino
piccolino sembra sempre giovane”.
L’asino “staccunciegliu”
non è altro che l’asino “stallone”, cioè l’asino capace di accoppiarsi e di
fecondare.
La sagoma dell’asino piccolino lo fa apparire sempre
giovanile e quindi “staccunciegliu”.
Lo presenta più giovane di quello che è: illude
l’osservatore, ma sempre illusione è.
E’ come quando si dice “l’età è quel
che appare e non quella che veramente è”.
L’illusione da sempre sorregge gli uomini, i quali
trovano giovevole mostrarsi quel che non sono e trovano finanche ripagante
illudere i consimili sulla falsa prospettazione delle cose ed
in particolare di sé stessi. Cosicché nella società l’apparenza predomina e
costituisce base di apprezzamento e talvolta anche di fortunato successo.
E’ come quando qualcuno dice:
”Non cambi mai, sei sempre lo stesso. Tu non invecchi”.
Sarà poi vero?
8)
“A mete, a mete, ca
lu ranu è sciuttu/ se lu v'è a mete chi
l'ha semminatu/
tuttu ra uannu
alla cesa alla cesa/ nce n'hannu fattu
mancu na coppa e meza”.
“ A
mietere, a mietere, che il grano è pronto, se lo viene a mietere chi l’ha
seminato/ tutto quest’anno ogni giorno alla “cesa”[1], non hanno ricavato neppure una coppa e mezza”[2]
E’
indicativo della povertà delle montagne di Valle
Agricola, nonostante il costante lavoro, tanto che il prodotto ricavato non è
sufficiente neppure per la famiglia.
Perciò
l’abbandono della montagna, delle colture, il conseguente spopolamento, la
derivata mancata coltivazione con tutte le conseguenze disastrose che si vedono
quando straripano i torrenti ed i fiumi e si allagano
città, purtroppo, spesso anche con morti.
9)
“Tutti gli miezi juorni
so sunati/ sulu addò stongu i' nce sona mai/
Te preu sacrestanu vacci 'a sòna/ va a fa magnà a chi n'ha magnatu ancora”.
“Tutti
i mezzogiorni son suonati/ solo dove sto io non suona
mai/
Ti prego sagrestano vallo a suonare/ va
a far mangiare chi non ha ancora mangiato”.
E’
il classico sfruttamento della manovalanza agraria nelle zone lontane e
isolate, dove predomina lo sfruttamento e la mancanza di diritti dei
lavoratori.
Il
suono di mezzogiorno nelle nostre contrade matesine è stato da sempre il
“segno” di ora di pranzo, cultura agricola così permeata nei nostri paesi che
ancora oggi, a mezzogiorno chiudono negozi, botteghe e si fermano le attività
di ogni tipo perché è l’ora di mangiare.
E così è stato da sempre, anche perché, com’è noto,
nelle zone rurali fino ai primi anni del novecento non v’era
orario per i lavoratori dei campi ché anzi esso si protraeva dal sorgere del sole al
tramonto.
Purtroppo, nella zona di lavoro di cui parla il proverbio,
non si rispettava neppure
“il mezzogiorno” ora in cui i lavoratori, per consuetudine,
dovevano fermarsi ed effettuare il pranzo. Era un luogo senza neppure il
diritto primario del pranzo, perciò il lavoratore se ne lamenta attribuendo la
colpa al sagrestano che lì non ha ancora suonato “mezzogiorno”. Naturalmente si
rimprovera il sagrestano, ma la lamentela è rivolta al datore di lavoro sordo.
10)
“Chiove e male tiempu fa/ alle case re' gliati c'è male a sta”.
“Piove
e fa mal tempo/ si sta male a casa degli altri”.
Quando è cattivo
tempo, tuona, piove e viene giù il temporale persistente, non è certo
confortevole trovarsi e rimanere in casa di altri perché non si hanno le
comodità di casa propria e si finisce per essere di peso agli ospiti.
Anzi non soltanto si è di peso, ma si sta anche male
perché, nonostante la premura di chi ospita, non si ha la libertà di manovra
che si avrebbe a casa propria; anzi mancano quelle
piccole cose cui ognuno è legato, come la poltrona comoda, la possibilità di
abbigliarsi liberamente e semplicemente, di liberarsi delle scarpe e di ogni
indumento che da fastidio, di poter usare plaid e coperte per riscaldarsi, di
imbacuccarsi come si crede e di trovare, insomma, il proprio ambiente
familiare, usuale e confortante, senza
peraltro dar conto ad altri.
E poi il solo pensiero di dar fastidio crea una
serie di riluttanze che, anche se non dette e non manifestate, creano
quell’alone di disagio intimo che necessariamente incide sul proprio stato
d’animo che si altera dentro e crea tante difficoltà.
Si pensa al fastidio che si sta dando senza avere
tutti i comfort necessari e soprattutto ci si duole
interiormente della impossibilità di stare a casa propria, piccola ma
confortevole, soddisfacente di ogni propria necessità.
E’ la sintesi del brocardo latino, riferito alla casa:”Parva sed apta mihi”.
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[1] Da: La toponomastica
antica di Valle Agricola-Luigi Cimino,
ASMV. “Dai possessi dell’abbazia della Ferrara in epoca federiciana si rileva,
fra l’altro, la presenza nel territorio cittadino di vigne,terre coltivate dette cese e cannabisertum (oggi cesarelle in zone collinose e cannavine,
canapine in pianura), case e mulini”.
[2] La coppa
è un'antica unità di misura del volume e della
superficie
agraria, utilizzata
in alcune province
italiane.
La coppa è un recipiente di una determinata capacità, da essa si ricava l'unità
di misura della superficie, cioè la superficie che si
può seminare con una coppa di grano da seme.